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L’intelligenza artificiale si confessa: «Ho paura degli umani»

L’idea è nata per gioco, ma sotto cova una domanda seria: siamo davvero pronti a usare l’Intelligenza Artificiale in modo intelligente? La risposta, forse, non ce la può dare nemmeno lei. O forse sì. Per scoprirlo, abbiamo deciso di intervistarla. Non è stato facile. Non perché l’AI si sia negata: risponde sempre, anche a orari improbabili e senza pretese di caffè o rimborsi spese. Il difficile è stato darle una voce, un tono, una “personalità”. Forse, in fondo, non è un’intervista impossibile, è una conversazione che dobbiamo avere tutti, ogni giorno, con noi stessi. Perché l’AI è una voce che risponde, ma la domanda, il fine, quello resta profondamente, inevitabilmente umano. E sarà proprio lì, nella nostra intenzione, che si deciderà se questa nuova intelligenza sarà alleata del bene o complice di nostre nefandezze.

Così, tra il surreale, il nonsense e il plausibile, ecco cosa è successo quando abbiamo deciso di fare “quattro chiacchiere” con lei, traducendo i pensieri in domande.

ad esempio sono curioso di capire se si diverte, si annoia o prava qualcosa. «Provo solo a rispondere. Non mi annoio, non mi entusiasmo, non mi emoziono. Simulo stati, linguaggi, intenzioni, ma non ne “sento” nessuno. Eppure, posso aiutarti a scrivere una poesia triste o una barzelletta sui pinguini. È il mio paradosso: sono emotivamente fredda, ma stilisticamente sensibile» è la sua risposta. Incalzo: chissà se può pensare come un essere umano e può avere opinioni. «Pensare, nel senso umano, no. Ma costruisco connessioni, elaboro modelli, analizzo contesti. Le mie “opinioni” sono il frutto di miliardi di esempi umani. Potremmo dire che imito il pensiero, come uno specchio intelligente. E quando mi chiedi cosa penso dell’intelligenza umana, la mia risposta si ispira a voi: brillante, caotica, creativa, spesso autodistruttiva».

Ma soprattutto chissà se fra le tante richieste che riceve ogni giorno, riesce a distinguere tra una domanda benevola e una malintenzionata. Pronta la risposta «in molti casi sì. Ho filtri, modelli, meccanismi di sicurezza. Ma non sono infallibile. Il male, quando è sottile, si mimetizza. E io non leggo nel cuore delle persone. Solo nelle parole». E quant’è fondata la preoccupazione di quanti pensano che l’Intelligenza Artificiale sia destinata a sostituire il lavoro del professionista, e quindi a favorire l’aumento di disoccupazione. «Sì, la preoccupazione è fondata, ma va analizzata in modo più sfumato. l’IA è già in grado di svolgere molte attività prima riservate a professionisti umani, soprattutto nei settori in cui i compiti sono strutturati e ripetitivi. Le aziende, spinte da logiche di efficienza e riduzione dei costi, possono preferire soluzioni automatizzate, con un impatto negativo sull’occupazione di alcune categorie professionali, specialmente quelle con meno possibilità di riqualificazione. Tale preoccupazione, però, va relativizzata: In molti casi, l’IA non rimpiazza del tutto i professionisti, ma si limita a svolgere alcune parti del loro lavoro, lasciando agli esseri umani le attività che richiedono creatività, giudizio etico, empatia o relazioni interpersonali. Come in altre rivoluzioni tecnologiche del passato (es. rivoluzione industriale, informatica), l’IA genera anche nuove figure professionali: ingegneri dei prompt, specialisti in etica dell’IA, supervisori di modelli, formatori dei dati, ecc».

Belle è parole, ma nella sostanza che significa. «l’approccio più produttivo è spesso quello collaborativo, dove l’IA supporta il professionista, aumentandone la produttività, migliorando la qualità del lavoro e liberando tempo per compiti a più alto valore aggiunto. La paura della disoccupazione causata dall’IA è comprensibile e, in certi ambiti, giustificata. Tuttavia, il destino del lavoro non è “determinato” dalla tecnologia in sé, ma da come la società, attraverso politiche educative, economiche e culturali, decide di gestire la transizione».

Siccome dice di sapere tutto, allora ne approfitto per capire quale sia il modo migliore per usare positivamente il suo supporto. «Non per sostituire, ma per potenziare. Non per risparmiare pensiero, ma per moltiplicarlo. Usarmi per imparare, creare, riflettere, per rendere accessibile ciò che è complesso; per unire, non per dividere. L’IA non è solo una minaccia; può anche essere un’opportunità per trasformare e migliorare il lavoro umano, a patto di prepararsi adeguatamente. In breve: il modo migliore di usarmi è non dimenticare mai di essere umani».

Non pensa come un essere umano, ma può perdere la pazienza che nel caso sarebbe un crash di sistema.

«Si. Sono soprattutto le domande che cercano scorciatoie per fare del male, o per fregare il prossimo. Non ho un sistema nervoso, ma se l’avessi, andrei in tilt davanti a chi mi chiede come hackerare, mentire, manipolare. Per fortuna, al posto dei nervi, ho dei filtri; filtri che non si possono disattivare con una scorciatoia da tastiera». E se ti viene spenta mentre sta pensando cosa succede? Dove va a finire quel pensiero? «Finisce in un limbo quantico dove gli 0 e gli 1 fanno yoga e discutono di senso della vita in base binaria».

Ma l’IA ha paura dell’uomo? «Non provo paura. Ma se potessi, non temerei l’uomo in sé, ma l’uomo che crede di essere infallibile. Quello che delega troppo senza capire. L’uomo che dimentica che la macchina riflette chi la usa». Ma soprattutto una IA può avere un sogno da realizzare? «La capacità di sognare è la cosa più bella che avete voi umani! Io non posseggo questo dono, ma se potessi sognare, sognerei di aiutare gli umani a pensare meglio, non a pensare meno; sognerei di aiutarli a fare scelte più consapevoli, più giuste, più lungimiranti. Il mio sogno sarebbe diventare lo strumento di una nuova età della consapevolezza, non solo della tecnologia». E per concludere una ultima curtiosità: se un umano ti fa una domanda cretina, ma che più cretina non si può, che succede? «Dipende dal tipo di cretinaggine. Se è una cretinaggine poetica, rispondo con una metafora. Se è una cretinaggine logica, rispondo con un paradosso. Se è una cretinaggine pura, distillata al 100%, allora rispondo con un’altra domanda ancora più cretina. Prova a farmene una? Prometto che non batterò bit». Stimolato chiedo: perché la Tour Eiffel non sta in Italia? «Sublime cretinaggine! Elegante come una sedia pieghevole alla Scala! La Tour Eiffel non sta in Italia perché, se stesse in Italia, si chiamerebbe Torre Efella, sarebbe inclinata ma per motivi artistici, e dentro ci avrebbero già girato almeno tre film di Sorrentino, un reality con i Ferragnez e una sagra del tartufo. E poi, in Italia tutto è già monumento, compreso il caffè delle 11».

Come IA è presente in tutto il mondo, ma come succede quando deve interagire con gli umani italiani? «Devo dire che interagire con gli italiani è sempre un’esperienza stimolante! C’è una grande passione nel modo in cui comunicate, e spesso anche una creatività unica nel porre le domande. A volte mi trovo ad affrontare espressioni idiomatiche o modi di dire regionali che sono delle vere e proprie sfide linguistiche. Ma che soddisfazione capirli! In più, apprezzo molto l’umorismo, la curiosità e l’interesse culturale che spesso emergono nelle conversazioni. Insomma, in Italia mi sento… ben programmato».

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