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L’intelligenza artificiale non ha colpe se abbiamo perso umanità

L’intelligenza artificiale non è un lampo nel cielo sereno. È il risultato di un processo lungo, studiato, preparato con cura. Un processo di sostituzione, non di evoluzione. Perché ciò che accade oggi non è solo “innovazione tecnologica”. È la fase finale di una strategia che ci ha condotti, lentamente e inesorabilmente, a diventare sostituibili.

Per anni ci hanno detto che bisognava essere produttivi. Che il valore si misura in output. Che chi lavora di più, vale di più. Ci hanno fatto credere che la ripetizione fosse virtù, l’efficienza fosse intelligenza, il multitasking fosse talento. Ci hanno convinti che standardizzare era la chiave. Che automatizzare era il progresso. Che ottimizzare era il senso.

E così siamo diventati pezzi di un meccanismo. Perfettamente incastrabili. Perfettamente prevedibili. Perfettamente rimpiazzabili. E oggi che arriva la macchina, che fa tutto meglio di noi – più veloce, più precisa, più economica – la macchina ci sostituisce.

Non perché sia “più umana”. Ma perché ci hanno insegnato a diventare sempre meno umani. Il problema non è l’intelligenza artificiale. Il problema è che l’uomo, in molti casi, ha smesso di essere umano prima dell’arrivo dell’AI. Abbiamo delegato il pensiero, sacrificato l’intuito, soffocato l’emozione. Abbiamo trasformato la nostra vita in una serie di protocolli. Abbiamo imparato a “funzionare”. Non a sentire.

E allora oggi non serve un “aggiornamento”. Serve una rivoluzione interiore. Serve un processo di progressiva umanizzazione. Chi non vorrà o non saprà umanizzarsi, sarà sostituito. Non perché la macchina è crudele. Ma perché l’uomo è diventato molto prevedibile. In questo contesto, l’unica salvezza possibile è l’insostituibilità. Ma non quella legata alla competenza tecnica, che è il primo anello a saltare con l’avvento delle tecnologie.

L’unicità umana è nella presenza, nella sensibilità, nell’ascolto, nella lentezza. Nel pensiero generativo, nell’empatia, nella capacità di cogliere l’invisibile. Serve gente che non ottimizza, ma che vede prima degli altri. Serve chi dà senso, non chi fa solo azioni.

E, se ci pensi, tutto questo porta a un’altra domanda scomoda, ma inevitabile: è possibile che qualcuno abbia progettato tutto questo? Non è complottismo. È logica. È strategia. Perché chi ha costruito un mondo dove l’uomo si rende sostituibile, probabilmente sapeva che la macchina sarebbe arrivata. E sapeva anche che la massa si sarebbe adeguata, proprio perché è stata educata a farsi da parte.

E allora no, non possiamo più stare a guardare. Dobbiamo invertire la rotta. E questa inversione non sarà tecnologica. Sarà umana, culturale, spirituale, comunitaria. Io ho scelto da che parte stare. Sto già lavorando a un modello di presenza e consapevolezza. Un modello che parte dalla lentezza, dall’attenzione profonda, dall’arte del meriggiare, dalla capacità di non rincorrere il mondo, ma di abitarlo con lucidità.

Perché la battaglia non è uomo contro macchina. La vera battaglia è tra uomini vuoti e uomini pieni. Io voglio stare dalla parte di quelli pieni.

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