Può il sospetto, alla base di qualsiasi inchiesta giornalistica, prevalere sulla verità, peraltro accertata da una serie di provvedimenti della magistratura? La domanda non è peregrina, soprattutto dopo il servizio mandato in onda da “Report” che ha provocato una immediata levata di scudi da parte dei partiti di maggioranza.
Oggetto dell’inchiesta condotta dai giornalisti di Sigfrido Ranucci sono i presunti rapporti tra l’ex premier Silvio Berlusconi, il suo fedelissimo Marcello Dell’Utri e la criminalità organizzata. Anzi, i rapporti tra il Cavaliere e Cosa Nostra non possono nemmeno essere considerati presunti perché relativi ad accuse che i Tribunali di Palermo, Caltanissetta e Firenze hanno archiviato in tempi non sospetti, peraltro su richiesta delle rispettive Procure. Vuol dire che quei rapporti semplicemente non sono mai esistiti. Punto.
Ora non è questa la sede per una valutazione su ciò che il ventennio berlusconiano ha rappresentato, anche sotto l’aspetto della lotta alla mafia. Il punto è un altro e riguarda il modo di fare giornalismo. Se l’informazione deve mirare alla ricerca della verità, che tipo di informazione può mai essere quella che alla verità giudiziaria (che non è certo quella assoluta, ma è di certo più consistente di qualsiasi altra non parimenti accertata) sostituisce il sospetto? Che tipo di informazione può essere quella che alimenta il sospetto a carico di chi, essendo passato a miglior vita, non può difendersi? E che tipo di informazione può essere quella che conduce simili operazioni con i soldi dei contribuenti? Interrogativi sui quali tutti siamo chiamati a riflettere.