L’imperativo è difendere i salari

Secondo dati provvisori diffusi dall’Istat, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Nic), al lordo dei tabacchi, ha registrato nello scorso mese di marzo un rallentamento, passando, su base annua, da +9,1% a + 7,7%, con una diminuzione di -0,3% su base mensile. Anche nell’area Euro si è registrato un affievolimento della spinta inflazionistica, con un incremento annuale di +6,9%, rispetto al +7,4% dello stesso mese del 2022, e su base mensile la variazione è stata di + 0,9%. É probabile, dunque, che la dinamica dei prezzi si stia collocando su un sentiero di assestamento, dopo la tempesta del 2022. Ricordiamo che l’aumento sostenuto dei prezzi nel nostro Paese ha cominciato a delinearsi nel 2021, trainato dalla forte ripresa della domanda per consumi dopo l’allentamento delle restrizioni sanitarie, conseguenti alla pandemia del 2020, e acuito dalle rigidità manifestate dal lato dell’offerta, per effetto del rallentamento dei trasporti marittimi e delle strozzature logistiche, dovute essenzialmente alle operazioni di disinvestimento in questi settori, sempre per effetto della crisi pandemica.

L’esplosione del 2022 è dovuta alle tensioni create dall’invasione russa dell’Ucraina sul mercato delle materie prime e delle commodities energetiche, con la conseguente ondata speculativa che ha toccato il suo acme nell’autunno del 2022. In ottobre 2022, infatti, la variazione dei prezzi su base mensile è stata di +3,4%, una vera e propria fiammata che ha ricacciato il paese indietro di quarant’anni, portando il Nic, su base annua, a + 11,8%. L’inflazione, come è noto, ha severi effetti redistributivi, colpendo i percettori di redditi fissi e le fasce più povere della popolazione, il cui potere d’acquisto si riduce inesorabilmente se non si instaura un meccanismo di compensazione di salari e stipendi indicizzati al tasso di inflazione.

Ma questo non è l’unico problema: la spinta inflazionistica obbliga le banche centrali ad aumentare il tasso di interesse con effetti restrittivi innanzitutto sugli investimenti e sui consumi, ma anche sulla stabilità finanziaria. Il rialzo tendenziale dei tassi di interesse aumenta il costo di indebitamento per le banche, sia per i prestiti contratti direttamente con la banca centrale che per i prestiti ottenuti da altre banche sul mercato interbancario, e riduce il valore delle attività finanziarie a basso rischio detenute dalle banche, soprattutto sotto forma di titoli di stato, accumulati negli scorsi anni in grande quantità, costituendo una forma di investimento sostanzialmente garantita dalla Bce.

Seppure le banche possono rivalersi aumentando a loro volta i tassi di interesse sui mutui concessi, nel breve periodo sopportano interamente le perdite in conto capitale dovute alla riduzione del valore del loro portafoglio titoli. Inoltre, l’aumento dei tassi altera il meccanismo degli incentivi, spostando l’allocazione della ricchezza dai depositi bancari, non più convenienti (con i tassi nulli o molto bassi concessi dalle banche), ad altre forme di investimento. Ne deriva una doppia pressione sui bilanci delle banche, dal lato della diminuita raccolta di fondi e dal lato delle crescenti perdite in conto capitale, con l’effetto di generare nei risparmiatori aspettative negative che possono trasformarsi in una incontrollata e generalizzata corsa agli sportelli, come è già accaduto per la Silicon Valley Bank, la banca californiana fallita due settimane fa. Se queste sono le prospettive, un rallentamento dell’inflazione non può essere che un dato positivo.

Tuttavia, non si deve trascurare il fatto che la struttura dei prezzi relativi si è modificata. Il dato settoriale dimostra che “l’inflazione di fondo” (cioè l’inflazione depurata dai prezzi di energia, cibo, alcol e tabacco, che tendono ad essere più volatili di altri) registra una moderata accelerazione (da +6,3% a +6,4%), così come quella al netto dei soli beni energetici (da +6,4% a +6,5%); i prezzi poi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona restano stabili in termini tendenziali a +12,7%, su base annua.

Su questa componente inflattiva ha influito sicuramente la siccità, effetto dei cambiamenti climatici, che tende a modificare le ragioni di scambio aumentando il costo dei prodotti primari alimentari. Più a lungo persiste questo tipo di inflazione, più si sentono i suoi effetti negativi redistributivi, che, se il quadro resta immutato, andranno corretti con un incremento, anche parziale di salari e stipendi, che recuperi la sensibile riduzione del potere d’acquisto.

Rosario Patalano è economista

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