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L’ex Ilva in realtà è morta

A forza di parlare di un morto come se fosse vivo e in buona salute, in molti si sono illusi che l’asta per la vendita dello stabilimento ex Ilva di Taranto avrebbe raccolto l’interesse del mondo industriale, consentendo alla vecchia fabbrica dell’acciaio di rinascere avviandosi verso una nuova, florida epoca da azienda ecocompatibile. Le probabilità che questo accada non sono molte.

Per il momento sappiamo che le sole proposte per rilevare l’intera Ilva sono arrivate da due fondi americani, Bedrock e Flacks Group, disponibili a mettere sul piatto addirittura un’offerta di un euro per portarsi a casa quella che era un tempo il più grande centro siderurgico a ciclo integrale d’Europa. Altri otto gruppi hanno manifestato interesse a rilevare brandelli di ex Ilva (oggi Acciaierie d’Italia), ma il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, si è affrettato a dire che il governo non è interessato a vendere l’azienda a pezzi.

Inutile stare a riepilogare le idee del governo per rivitalizzare le vecchie acciaierie, cioè l’uso di forni elettrici, la decarbonizzazione, la nave rigassificatrice, elementi che in teoria dovrebbero concorrere – tutti o in parte – a ridare all’Italia un’industria siderurgica all’altezza del mercato. Dovrebbe produrre sei milioni di tonnellate di acciaio l’anno, secondo l’ultima autorizzazione ambientale impugnata dal fronte ecologista, mentre oggi ne produce due e nei tempi d’oro ne produceva undici.

Allora però aveva cinque altiforni e adesso ne ha uno soltanto, in condizioni piuttosto precarie.

Senza inoltrarci in analisi che possiamo serenamente lasciare agli esperti, il caso Ilva ci fa capire quanto Taranto – la vecchia steel city italiana – stia ballando sulla stessa mattonella da almeno un ventennio, cioè da prima che l’inchiesta giudiziaria (2012), travolgesse la famiglia Riva, allora proprietaria degli impianti, quanto un sistema industriale antiquato che conserva ormai un solo record: le dimensioni.

Se uno dei due fondi americani riuscisse ad aggiudicarsi l’ex Ilva acquisirebbe un territorio grande come una città lasciandolo popolato da non più di duemila metalmeccanici (oggi sono ottomila).

Taranto si ritroverebbe così ad avere una fabbrica gigantesca (è l’unico record che le resta in Europa, più di quindici chilometri quadrati), con una densità di 133 metalmeccanici per chilometro quadrato, un numero che dà l’idea del declino di una storia e dello sfacelo della politica, incapace – a livello nazionale e locale – di partorire un progetto che sia in grado di stare in piedi in modo sensato, magari rispettando accettabili standard ambientali e sanitari di un paese civile.

Occupandosi dell’ex Ilva si ha la sensazione chiara di ripetere cose dette, ridette, stradette.

Non c’è nulla, da venti anni in qua, che non sia la solita storia, le solite dichiarazioni, le solite riflessioni che non portano a nulla.

«L’Ilva non durerà più di cinque anni. Stabilimenti come quelli di Taranto si fanno in Sudafrica o in Cina dove c’è ormai la gran parte della produzione mondiale», disse nel 2014 – undici anni fa – Rocco Palombella, segretario generale nazionale della Uilm, il quale oggi invoca la nazionalizzazione dell’impianto, la stessa linea curiosamente sostenuta sempre nel 2014 da Lamberto Dini, il presidente del consiglio che aveva decretato la privatizzazione dell’Ilva, venduta poi a Emilio Riva nel 1995, e la stessa linea attualmente sostenuta dal sindaco di Taranto, Piero Bitetti.

Quando non si sa che fare si usa questo verbo.

Gira e rigira siamo sempre nello stesso punto a parlare della stessa mega fabbrica con le stesse parole. Mentre gli ambientalisti accusano la giunta comunale di centrosinistra di non avversare nelle aule giudiziarie la linea del governo pur avendo al suo interno una componente ambientalista, la politica attende che qualcuno risolva il problema, ma non si sa chi e come.

E’ la storia di sempre, che induce non al pessimismo, ma al realismo. Taranto, che ebbe “in dono” dallo Stato l’Arsenale Militare alla fine dell’Ottocento e il centro siderurgico negli anni Sessanta del Novecento, ora spera evidentemente in un nuovo gigantesco intervento statale, senza mettere sul tavolo una sola idea, un’alternativa, una ipotesi scopiazzata.

Purtroppo, la politica non ha niente nella testa. I giovani sì: la fuga. In dieci anni la Puglia ne ha perduti quasi 135mila e Taranto quasi 22mila (fonte Cgia di Mestre).

Abituata agli slogan, ai tagli del nastro e alle candidature a qualunque cosa (a novembre si rinnova il consiglio regionale pugliese, tutti pronti), la politica parla del nulla e attende gli eventi, secondo la vecchia battuta di Mark Twain: «Non fare domani quello che puoi fare dopodomani».

Un rinvio dopo il rinvio fino al prossimo rinvio. Quanto potrà reggere, il bluff?

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