L’Europa non può sottrarsi

Il sei novembre 2017 ho raccolto il corpo di un bambino morto dal mare. Non un mare qualunque: il Mar Mediterraneo. Ricordo della madre, delle parole dette per consolarla, del vuoto attorno perché nessuna parola ha senso se il figlio che hai messo su un gommone per salvarlo muore annegato per una speranza che si trasforma in tragedia, annunciata. Dico che il Mediterraneo non è un mare qualunque. L’abbiamo fatto diventare un cimitero: più di 26mila morti in dieci anni.

Nel 2017 lavoravo come operatore umanitario sulla nave della ong Sea-Watch. Mi ricordo bene della guardia costiera libica, la stessa finanziata dall’Italia, che in quel naufragio lì ha lasciato morire, insieme a quel bambino, tante altre persone. Ho iniziato a lavorare come operatore umanitario quando avevo 20 anni: Afghanistan, Siria, Yemen, Congo, Centroafrica, Palestina, Colombia, Venezuela, Libano e tanti altri. Se usiamo il linguaggio della cooperazione internazionale, se ci atteniamo ai suoi tecnicismi, questi Paesi qui sono “emergenze umanitarie”. Paesi abitati da una popolazione che vive sotto guerre, disastri ambientali, epidemie, dittature.

Se usciamo fuori dai tecnicismi della cooperazione questi Paesi sono domande che rimangono senza risposta. E non basta tamponare, provare a coprire un bisogno. E non serve fare finta di non vedere, di non sentire, come se la ricerca di quella risposta non ci riguardasse. L’ho visto con i miei occhi, l’ho visto nel Mar Mediterraneo, l’ho visto in Ucraina, in Afghanistan e ancora Yemen, Siria, Kenya, Etiopia e in tutti gli altri: ogni emergenza umanitaria è connessa ad un’altra, il mondo è interconnesso, i “loro” problemi poi sono i nostri problemi. Ma facciamo un esempio concreto: la pandemia di Coronavirus è scoppiata in Cina, poi ha travolto l’Italia, poi il mondo intero.

La guerra in Ucraina sta letteralmente affamando il corno d’Africa e in Italia il costo della vita e l’inflazione sono salite alle stelle. Non possiamo pensare che una guerra rimanga lì, ferma. Non possiamo credere alla barzelletta delle frontiere chiuse e vivere ognuno per i fatti nostri, circoscritti in un pezzetto di vita. Non possiamo pensare “questo è un problema che non mi riguarda”. Torno al mare, perché è la prima prova, il primo segno che ci riguarda direttamente come Paese. Chi vive – anzi non vive – in questi Paesi qui prova a scappare. E in assenza di via sicure e legali lo fa mettendo a rischio la vita, sua e delle persone che ama. Nella strage di Cutro di qualche settimana fa, una strage che si è consumata a 150 metri dalla costa calabrese, c’erano diversi afghani sia tra le vittime che tra i sopravvissuti. Dopo la presa dei talebani di Kabul, il numero di rifugiati afghani è salito. Nel Paese il numero di persone che ha bisogno di assistenza umanitaria è salito a 28,3 milioni. Le continue siccità hanno provocato un drammatico aumento dei bisogni di igiene personale e le politiche delle autorità de facto, in particolare per quanto riguarda la partecipazione delle donne alla società, hanno determinato un aumento del 25% dei bisogni di protezione.

La Siria è devastata da 13 anni di guerra e il terremoto di febbraio l’ha letteralmente messa in ginocchio. È un Paese dove i bambini non vanno quasi neanche più a scuola. In Etiopia nel tigray o al nord del Kenya non c’è acqua, non c’è cibo: nei villaggi si muore di sete e di fame. Non esiste una soluzione ai problemi del mondo. Esiste però una strada di collaborazione che tutti siamo chiamati a fare insieme, un percorso. I governi dei Paesi in crisi, i governi dei Paesi occidentali, le agenzie, anche i singoli cittadini. E su migrazione e accoglienza l’Europa non si può più sottrarre e deve sviluppare un piano comune e condiviso.

Gennaro Giudetti è operatore umanitario, attualmente in missione con le Nazioni Unite Fao in Congo Drc

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