L’allarme è stato lanciato pochi giorni fa dal presidente della Confindustria siciliana, Alessandro Albanese: «Il Meridione non può reggere l’onda d’urto dei rincari energetici, qui rischia di saltare l’intero sistema sociale, famiglie e imprese». Le parole di Albanese rafforzano in termini ancora più drammatici le affermazioni del presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, sulla tenuta delle imprese del Nord. Siamo di fronte alla terza crisi energetica, dopo quella del 1973 e del 1979, che furono superate solo in seguito a una drastica ristrutturazione industriale e un lungo periodo di stagflazione, scontro sociale e instabilità politica.
I segnali che questa crisi colpirà profondamente il tessuto economico e sociale dei paesi europei sono evidenti: nell’Unione europea l’inflazione si attesta in luglio su base annua a +9,8%, l’anno scorso era +2,5%, e in Italia registra un +8,4% sempre su base annua, mentre per i prodotti alimentari e per i trasporti la variazione dei prezzi sale a +10,6%, e per abitazione, acqua, elettricità e combustibili balza a +31,5%; tra gennaio e luglio 2022 la cassa integrazione straordinaria ha registrato un incremento del 45% sull’anno precedente, con valori più elevati per i comparti produttivi a maggior consumo di energia, con +902% per la trasformazione dei minerali, + 639% per attività connesse con l’agricoltura, +315% per il legno, +217% per l’alimentare, +350% per il tessile, +344% per pelli e cuoio, +246% per abbigliamento e +195% per la metallurgia, mentre per il commercio siamo a +100%. E questi effetti saranno ancora più drasticamente negativi per le aree più deboli come il Mezzogiorno.
A trainare l’aumento dei prezzi è soprattutto il costo dell’energia. Le anticipazioni dell’ultimo rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno mostrano che l’impatto della crisi energetica sarà più drastico nel Sud perché sono più diffuse le imprese di piccola dimensione, con costi di approvvigionamento energetico strutturalmente più elevati e costi di trasporto oltre il doppio rispetto a quelli delle altre aree del Paese. Gli economisti della Svimez stimano che un aumento del prezzo dell’energia elettrica del 10% determinerà al Sud una contrazione dei margini di redditività dell’industria di circa sette volte superiore a quella del resto d’Italia, compromettendo la sostenibilità dei processi produttivi con effetti negativi sul mantenimento dei livelli occupazionali. L’impatto sui consumi energetici sarà ancora più drammatico allargando l’area di povertà energetica e dei consumatori vulnerabili. La povertà energetica risulta prevalente nelle regioni meridionali, superando il 25% delle famiglie residenti, questo dato è strettamente legato all’elevato indice di povertà relativa nelle stesse regioni, ed è chiaro che la spesa energetica in aumento aggrava situazioni critiche e rende povero un numero crescente di persone. È necessario, quindi, intervenire tempestivamente, riportando il prezzo dei prodotti energetici, soprattutto quello del gas naturale, entro limiti sostenibili. Questo obiettivo può essere più realisticamente ottenuto stabilendo un prezzo massimo sul prezzo al dettaglio per il consumatore finale, assorbendo la differenza a carico del bilancio statale, e quindi attuando nuovi scostamenti di bilancio. Più tortuosa appare la strada del price cap sull’acquisto di gas, cioè un prezzo massimo che dovrebbe essere fissato tra 80 o 100 euro a megawattora. Una tale operazione per essere efficace presuppone che l’acquirente abbia un potere di monopsonio su una molteplicità di venditori in concorrenza tra loro. Non è il caso dei rapporti tra Unione europea e Russia. Allo stato attuale la domanda di gas e altre fonti energetiche è formulata su base nazionale dai Paesi europei, quindi esiste una molteplicità di acquirenti che si confrontano con imprese fornitrici controllate dal governo russo. In sostanza il venditore russo è un monopolista che fronteggia una molteplicità di acquirenti europei. La parte più debole è evidentemente l’Unione europea. Affinché il price cap possa essere credibile è necessario che l’Unione centralizzi gli acquisti, ma anche in questo caso non ci sarebbero le condizioni per un mercato di monopsonio, in quanto si fronteggerebbero due monopolisti dal lato della domanda e dal lato dell’offerta: il risultato sarebbe quindi un mercato di monopolio bilaterale con effetti incerti sul livello del prezzo di equilibrio. L’unico vantaggio che ha l’Unione è che non acquistando il gas a prezzi di mercato elevati, i russi potrebbero subire danni ingenti per il costo delle infrastrutture inutilizzate. Ma ormai è chiaro che il governo russo dà priorità ai suoi obiettivi strategici e geopolitici e ha posto gli affari, da sempre lucrosi, con l’Occidente in secondo piano.
Rosario Patalano è professore di Storia del pensiero politico all’università Federico II
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