Dall’inizio dell’anno Giorgia Meloni, o meglio gli account social della premier, hanno complessivamente incrementato il numero dei follower sulle quattro principali piattaforme di 1.3 milioni di iscritti. Una crescita trascinata per il 65% dagli account di Instagram, con 482mila nuovi seguaci, e di TikTok, con una impennata di altri 400mila, dove l’età media della maggior parte degli utenti è compresa nella fascia anagrafica dai 25 ai 34 anni.
Al contempo, sempre nei primi sei mesi del 2025, il pallottoliere delle interazioni, che registra e somma i like e i commenti ai post, così come le condivisioni delle singole pubblicazioni, segna la ragguardevole cifra di 38,7 milioni. Per alcuni questi numeri sono vuote e sterili metriche di vanità, che non coincidono e non possono influenzare l’opinione pubblica su temi trasversali e seri quali l’economia, la sanità, la scuola, i trasporti e il lavoro.
Eppure, se ci togliamo i paraocchi con i quali spesso vogliamo commentare la nostra società e le sue trasformazioni, allora è impossibile non vedere che questi numeri, comunque straordinari, raccontano innanzi tutto una cosa: solo il leader che riesce a catturare ogni singolo giorno pochi attimi, brevissimi secondi, della nostra attenzione online ha le maggiori probabilità di trasformare il follower in un suo elettore.
Perché il follower-elettore non vota più per un partito, per un simbolo piuttosto che per l’altro e neanche per un’idea politica alla quale dare forza per contrastare una visione del mondo opposta. Niente di tutto ciò, anche perché per lo più appartiene a un mondo passato. Invece, al giorno d’oggi, quel follower che poi muta in un’elettrice o in un elettore sceglie di ribadire, attraverso il proprio voto, l’appartenenza attiva a una comunità digitale, al contempo e parallelamente trasferisce nella realtà, legittimandolo, il rapporto con il leader-celebrità. Infine, in questa mutazione ribadisce la sua “vicinanza dopaminica” con quei post, e oggi sempre più con quei reel, che hanno accompagnato i momenti più insignificanti della sua vita.
Se dunque i leader politici sono, si comportano e postano sempre più da “attention-seekers”, cioè da cercatori di attenzione digitale, allora si comprende bene come le elezioni, a qualsiasi livello, si decidono sempre più spesso dall’intensità con la quale i leader e i partiti presidiano le piattaforme. Il pubblico oramai da raggiungere e convertire non legge più i giornali e sempre meno guarda i canali televisivi generalisti. Il pubblico nasce e muore nella foresta dell’online, anzi onlife, volendo utilizzare un’espressione coniata dal filosofo Luciano Floridi, e in questi ambienti deve essere raggiunto.
Nel 2027, scadenza molto più vicina di quanto sembra, per la prima volta andranno al voto i diciottenni nati nel 2009, ovvero la generazione che non ha mai conosciuto un mondo senza smartphone, senza social media o wi-fi. Sono adolescenti cresciuti nel pieno dell’eco-sistema digitale e rappresentano la fetta più refrattaria, imprevedibile e volatile di elettorale che le varie democrazie contemporanee abbiano mai incontrato.
Riuscire a popolare la loro quotidianità, utilizzando un vocabolario coerente, formati e canoni comunicativi adeguati, così come parlare la loro lingua, abitarne i canali e interpretarne i codici sarà l’unica vera chiave per restare in sella. Questa ricerca di sintonia digitale presuppone un lavoro titanico e un tempo lungo che non si può improvvisare né tanto meno lasciare al caso. A meno che l’obiettivo di questo o di quel leader politico non sia semplicemente quello di arrivare secondo, magari dietro lo storico avversario.