Un agriturismo mite e senza pretese da un tavolo vicino al mio si interrogava su chi avesse vinto l’edizione 2024 di “Tu si que vales”. Al netto della mia ipoacusia selettiva la risposta di una giovane donna mi è parsa interessante: “Ha vinto Matteo, quello delle ombre”.
A parte la dritta, credo che il foglio di via alla autonomia differenziata sia un qualcosa di importante. Uno sprazzo di luce in un contesto in cui le ombre sembra che abbiano la meglio. Il comunicato stampa della Corte di Costituzionale sull’autonomia, in attesa di leggere i contorni della sentenza, ha suscitato molteplici riflessioni; non tanto sul merito delle questioni ma sulla rilevanza e ricaduta politica.
Il nodo delle incostituzionalità circoscrive due nuclei cruciali che metto in fila in ordine gerarchico: 1) gli equilibri tra le Regioni e quello tra Governo e Parlamento: la Corte non avalla trasferimenti in blocco che scardinerebbero l’equilibrio solidale; nel rapporto Governo-Parlamento la Corte si preoccupa di proteggere le prerogative del secondo evitando che pratiche ormai consolidate (soprattutto le deleghe generiche) ne svuotino il ruolo e ne sviliscano la funzione; 2) gli squilibri e i divari tra i cittadini di diverse Regioni, che incidono sui diritti fondamentali e sull’intero assetto costituzionale il quale, occorre ribadirlo, valorizza le autonomie come parti che compongono un tutto.
Con una formula dura ma giusta Gianfranco Viesti – uno degli intellettuali che più ha condizionato il dibattito della società civile sul tema della autonomia differenziata – ha parlato senza mezzi termini di “secessione dei ricchi” ovverosia una specie di porto franco in cui le regioni più solide e ricche pongono se stesse e i loro privilegi al riparo e al di fuori delle tempeste che colpiscono le fragilità sistemiche del Paese. L’immagine, per quanto forte, a me pare onesta e regge alle obiezioni.
Lo stesso Viesti – per dare anche dei volti alle ombre – con altrettanta lucidità ha posto in evidenza la genesi di questa deriva che parte da lontano e, come tutte le derive, ha un portato assolutamente trasversale: gli accordi di avvio del negoziato tra l’uscente governo Gentiloni – rappresentato dal sottosegretario agli Affari regionali Gianclaudio Bressa – e le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna; le fasi gestite dal primo governo Conte praticamente fino alla prima metà del 2019 a cui seguì un sostanziale rallentamento, confermato dai successivi esecutivi Conte II e Draghi; l’attuale ripresa dell’iter impressa dall’attuale Governo e, soprattutto, dal ministro Roberto Calderoli.
Le questioni, oltre alla plurima censura di incostituzionalità, pongono sul tappeto diverse questioni politiche: la centralità della società civile, in questo caso nel suo aspetto virtuoso e non come intermediazione opaca della gestione del potere; la irrinunciabilità degli organi di garanzia costituzionale senza dei quali la “Costituzione più bella del mondo” sarebbe stata fatta a brandelli da decenni; la centralità della presidenza della Repubblica incarnata da un uomo dello spessore politico e morale di Sergio Mattarella.
E le ovazioni per quest’ultimo non devono sminuire il carsico fastidio di chi – non sono pochi – intravvede nell’ancoraggio del sistema repubblicano ai valori costituzionali un ostacolo alla modernizzazione del Paese. Anche in questo caso il tema non è riconducibile alla sola e solita osteria dei beceri ma assume i contorni di una trasversalità molto ampia che va ben oltre il lardo di colonnata.
La partita – il cui gioco grande è ripartito da oltreoceano anche con una potenza simbolica notevole – è aperta e l’approdo non è affatto scontato.