L’idea di Madre come creatura perfetta, insostituibile e impagabile è uno dei più grandi inganni culturali della nostra società. Inganno che ha radici pressoché inestirpabili: la tradizione di madre come Ma-donna che dà la vita, angelo della famiglia, protettrice assoluta dei suoi pargoli eccetera. Ma la vera verità, che non è mai bellissima né mai politicamente corretta, è che non basta partorire per essere madre. La genitorialità si vede dopo.
La famiglia e, nello specifico, il rapporto con la madre, è il primo nucleo sociale di un individuo ed è, di base, la nostra eredità, nel senso che è dalla “casa madre/figlio” che si attinge quasi tutto ciò che costantemente proveremo dentro: la sicurezza, le paure, l’aggressività, la serenità, la pace o la guerra. E io trovo intellettualmente scorretto continuare a idealizzare un rapporto che nella realtà è fonte di tantissimi dolori: Medea esiste, e bisogna dirlo; e i figli di Medea sono tutti i bambini e gli adolescenti vessati, trascurati e tormentati dalle loro madri, che diventeranno adulti condannati a chiedersi per sempre come sarebbe stata la loro vita se avessero conosciuto l’amore materno.
Questi figli sono una minoranza, forse sì, ma non è giusto che siano muti e schiacciati dalla pressione sociale del moralismo. Loro sanno che la parola mamma ti salva, quasi sempre, ma quando ti rovina, lo fa per sempre; loro sanno che la parola mamma ti accompagna per tutta la vita, o ti fa sentire solo per tutta la vita. C’è chi cerca altrove quel calore, ma non sa nemmeno bene cosa cercare; come si può cercare ciò che ci è sconosciuto? Sono lacrime bollenti quelle di chi non si è mai sentito figlio, e sono notti fredde quelle di chi ha il terrore di diventare a sua volta una madre sbagliata. La parola mamma a volte muore dentro di noi, in un silenzio luttuoso in cui sprofondiamo con una monca identità.