Come appare dai sondaggi, la destra in Italia è oggi solida, compatta, forte di un consenso che sembra difficilmente scalfibile. Eppure, come spesso accade, la politica estera potrebbe rivelarsi il suo punto d’attrito. Un varco, forse l’unico, per chi intende sfidarla sul terreno del consenso.
Nel nostro Paese, dove cresce una parte dell’opinione pubblica non più disposta ad accettare il sostegno incondizionato degli Stati Uniti ad Israele, come dimostrano le manifestazioni ed iniziative di questi giorni per la Palestina, l’opposizione potrebbe trovare spazio per un discorso alternativo: quello della pace. Un tema universale, ma oggi quasi rivoluzionario, capace di smuovere corde profonde, anche tra elettori tradizionalmente refrattari alla retorica progressista.
Resta il dubbio se l’opposizione, una volta al potere, avrebbe la forza politica di confermare la rotta indipendente che oggi invoca, o se il vento dell’Atlantico finirebbe per arrestarla – spinta indietro da un’America che non ammette deviazioni dal suo orizzonte strategico.
L’idea di un’Italia pronta a ribellarsi all’allineamento con gli Usa appare come un’ipotesi suggestiva, ma non necessariamente realistica, vista la storica dipendenza strategica, economica e militare del Paese.
D’altronde, non sembra che in passato all’America – repubblicana o democratica – sia interessato davvero il colore politico dei governi alleati, o se, al contrario, conti soltanto la loro disponibilità a restare nel perimetro del potere americano, da cui oggi sembra impossibile prescindere.
È, se vogliamo, il cavallo di Troia del dibattito politico: un varco nel muro dell’allineamento atlantista che il governo Meloni, coerentemente con la tradizione dei governi italiani ed europei, non ha mai messo in discussione. Tuttavia, proprio questo allineamento rischia di esporre la premier a un dissenso interno, silenzioso ma crescente, che potrebbe costringerla – almeno sul piano simbolico – a scelte meno ortodosse rispetto all’asse Washington-Bruxelles.
A rompere l’ “impasse” che sembra paralizzare la politica nostrana e non solo, pare averci pensato Trump, che intende coltivare la pace anche sul terreno dei rapporti economici e commerciali. Il suo obiettivo appare quello di riallacciare legami – soprattutto con i Paesi arabi – più forse per il calcolo di evitare l’isolazionismo strategico che per autentico slancio idealista.
Lo stesso presidente statunitense, al quale la premier guarda con evidente sintonia politica, non può quindi più ignorare gli umori che attraversano le società dei Paesi alleati. Il rischio, per tutti, è che la fedeltà all’alleanza atlantica si trasformi in una trappola di consenso, destinata a ripercuotersi anche sull’immagine di un presidente che, volente o nolente, deve affrontare un’accanita opposizione interna e farsi carico dell’ingombrante eredità dei suoi predecessori: quella di un’America impegnata in più fronti militari, giustificati in nome dell’esportazione della democrazia. Ed ecco finalmente un piano di pace per Gaza. Anche se più che un piano di pace, al pragmatico presidente statunitense servirebbe in realtà un modo per uscire dal conflitto, una via d’uscita morale e politica.