Legare gli stipendi al costo della vita: è l’obiettivo del disegno di legge che la Lega ha presentato in Senato. Tanto è bastato perché tornasse ad aleggiare lo spettro delle cosiddette gabbie salariali, il sistema di calcolo delle retribuzioni che legava queste ultime al costo della vita in un determinato luogo e che fu definitivamente superato a fine anni ‘70.
È così? Probabilmente no, ma la proposta avanzata dalla Lega deve riaccendere i riflettori sulle enormi differenze salariali tra Sud e Nord che, dati Svimez alla mano, si attestano addirittura sul 20%. Parliamo, dunque, dal ddl appena presentato. Il suo obiettivo è quello di legare non l’intera retribuzione, ma i soli trattamenti economici accessori al costo della vita nella città in cui tanto i dipendenti pubblici quanto quelli privati svolgono l’attività lavorativa. In questo modo, secondo i proponenti, si scongiurerebbe il pericolo di ripiombare nelle gabbie salariali e si preserverebbe il principio della parità retributiva.
Rassicurazioni, queste ultime, che non bastano alla sinistra e ai sindacati, secondo i quali il ddl depositato dalla Lega aumenterà ulteriormente i divari tra Nord e Sud e sminuirà notevolmente il ruolo delle sigle nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale.
Non c’è che dire: il ddl obiettivamente ricorda le gabbie salariali. Però, come ha opportunamente sottolineato Giuliano Cazzola sulle pagine del Quotidiano del Sud, se le zone salariali sono un capitolo chiuso della storia italiana, la questione dei differenziali retributivi resta e va affrontata in forme nuove e differenti.
I dati, d’altra parte, lo confermano. A Milano è considerata povera una famiglia con uno stipendio netto di 1.700 euro al mese, mentre a Palermo quella soglia si abbassa a 1.300. Un’indagine condotta da applavoro.it fotografa la situazione in maniera ancora più nitida. A Bologna un commesso ha un salario medio di 1.232 euro al mese, a Bari non si va oltre i 988. A Torino un agente di commercio incassa 2.477 euro netti al mese, a Bari la media è di soli 1.641. Nei call center di Milano si guadagnano mille euro al mese, a Bari non più di 589. Così le differenze retributive che Svimez quantifica nel 20% arrivano a sfiorare addirittura i 40 punti. Ecco perché proposte come quella di cui si discute in queste ore, per quanto discutibili, non vanno stroncate a priori; piuttosto devono contribuire a ridestare l’attenzione su certi problemi e a stimolare il dibattito sulle soluzioni, ricordando che al Sud non servono uguaglianze forzate e ideologiche che alla prova dei fatti si rivelano insostenibili per la sua economia.
Come si potrebbe intervenire, dunque, sulla questione delle differenze retributive? Nell’ambito del dibattito sul salario minimo, un giuslavorista autorevole come Pietro Ichino ha proposto di definire quest’ultimo in base al potere d’acquisto della moneta, così da escludere il ritorno alle famigerate gabbie. Può essere una soluzione, ma non bisogna ignorare altri elementi. Secondo Bankitalia, infatti, l’origine delle enormi differenze retributive tra Nord e Sud va ricercata in due caratteristiche dell’economia meridionale: l’alto tasso di disoccupazione, che abbassa i salari costringendo tante persone ad accettare paghe da fame, e il tipo di impiego, visto che dove scarseggiano le grandi imprese sono più frequenti lavori meno qualificati e quindi meno retribuiti. Per tutti questi motivi l’imperativo categorico è sostenere l’imprenditoria meridionale, stimolando gli investimenti e agevolando le assunzioni nella parte del Paese più depressa. Le gabbie salariali della Lega possono aspettare. Ciò che non può più attendere sono misure strutturali capaci di rafforzare l’economia del Mezzogiorno.
Raffaele Tovino – dg Anap