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Le donne nel mondo del lavoro

La ricorrenza del 25 novembre e la quasi concomitante morte di Giulia Cecchettin, hanno giustamente riacceso i riflettori sulla violenza di genere.

Quelle fisiche, verbali e psicologiche non sono le uniche vessazioni cui le donne italiane sono attualmente sottoposte. Non possono e non devono essere dimenticate, infatti, le disparità di genere nel mercato del lavoro che, oltre a calpestare la dignità del gentil sesso, frenano lo sviluppo economico dell’Italia e, in particolare, del Mezzogiorno.

Partiamo dai numeri. In Italia si registra uno dei più bassi tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro. Non solo: il nostro è il Paese europeo con la più alta percentuale di occupazione a tempo parziale involontario tra le donne. Ancora, in Italia la probabilità che le donne occupate diventino non occupate nei due anni successivi alla maternità è doppia rispetto a quelle senza figli, mentre le chance di trovare lavoro diminuiscono dopo la nascita di un figlio e rimangono più basse per almeno cinque anni. Eppure un aumento del 10% della forza lavoro, attraverso l’incremento dell’occupazione femminile, farebbe impennare il pil nella stessa misura nel lungo periodo, soprattutto in aree tradizionalmente depresse come il Mezzogiorno. Come le economiste Francesca Carta, Marta De Philippis, Lucia Rizzica ed Eliana Viviano hanno opportunamente osservato in una loro recente riflessione, l’obiettivo è eliminare la cosiddetta “child penalty” nei tassi di ingresso e uscita dal mondo del lavoro in modo tale da far lievitare il tasso di occupazione femminile del 6,5% entro il 2040.

Come fare? Per consentire alle donne di lavorare sono fondamentali innanzitutto gli asili nido. In Italia la disponibilità di strutture per l’infanzia per bambini tra 0 e 2 anni è molto limitata, con la conseguenza che ancora troppe donne non riescono a conciliare impegni familiari e professionali o, peggio, sono costrette a rinunciare al lavoro per dedicarsi completamente al ruolo di madri. Su questo fronte la speranza è il Pnrr: secondo la banca dati dell’Anac, nel nostro Paese il valore dei bandi e degli avvisi per asili nido sfiora di importo maggiore o uguale a 5mila euro sfiora il miliardo e mezzo di euro; a fare la parte del leone sono regioni come Campania e Puglia, tradizionalmente afflitte dalla carenza di strutture per l’infanzia. Indispensabile quanto gli asili nido è un più largo ricorso ai congedi da parte dei papà: secondo l’Ocse, in Italia solo il 20,5 % dei congedi è riservato ai padri, mentre la media europea supera il 30. Questo fenomeno dipende non solo da fattori culturali, ma anche dalla scarsa generosità del sistema italiano dei congedi per i padri le cui maglie dovrebbero diventare finalmente più larghe. Infine, va cambiato anche il sistema di tassazione e dei trasferimenti che, prevedendo crediti d’imposta per il coniuge a carico, scoraggia l’occupazione delle donne che di solito sono i membri della famiglia con prospettive retributive peggiori.

Tutto ciò impone una riflessione. Se è vero che contro la violenza di genere è indispensabile una svolta culturale, quest’ultima è altrettanto necessaria per eliminare il divario di genere nel mercato del lavoro. E a indurla dev’essere un insieme ampio e coordinato di politiche che comprenda la lotta agli stereotipi di genere, un miglioramento delle politiche di conciliazione dei tempi di famiglia e lavoro, la rivisitazione del sistema di tassazione e trasferimenti, la promozione di un’organizzazione del lavoro più flessibile e a misura di famiglia: così si dà slancio all’economia e, soprattutto, si difende la dignità delle donne, troppo spesso calpestata non solo da ex violenti ma anche da uno Stato lento e miope.

Raffaele Tovino – dg Anap

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