Com’è possibile, in un momento in cui occupazione e prodotto interno lordo sono in aumento, che quasi un italiano su quattro sia a rischio povertà? Molti si saranno posti questo interrogativo dopo la recente pubblicazione dei dati sulle condizioni di vita e di reddito nel nostro Paese da parte dell’Istat. E a quelle stesse persone non sarà sfuggita l’evidente discrepanza tra queste statistiche, poco lusinghiere se non addirittura allarmanti, e quelle sul mercato del lavoro, che invece tanto fanno inorgoglire il governo Meloni. Questa divergenza non è il risultato di un atteggiamento schizofrenico dell’Istat, ma di un dramma che da anni affligge l’Italia e, in particolare, il Sud: quello del lavoro povero.
E allora ragioniamo sui numeri. Pochi giorni fa l’Istat ha detto che il 23% degli italiani è a rischio povertà, che i genitori hanno il 9% in meno di possibilità di spendere rispetto a 18 anni fa e che un lavoratore ogni dieci è povero anche se ha un’occupazione. In precedenza, sempre l’Istat aveva osservato come nel 2024 il numero degli occupati sia cresciuto di 352mila unità, mentre quello delle persone senza un impiego sia calato di circa 283mila, con la conseguenza che il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 6,5% diminuendo di oltre un punto rispetto al 2023. Si tratta di dati incompatibili tra loro? Niente affatto. Queste statistiche si giustificano e ci inducono a riflettere sulla qualità del lavoro in Italia.
Non c’è dubbio, infatti, che nel nostro Paese il lavoro si sia progressivamente impoverito per quanto riguarda sia la remunerazione sia la qualità. Anche qui ci soccorrono i numeri: secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, la crescita dei salari reali avvenuta in Italia nel 2024 non è stata sufficiente a compensare le perdite registrate nel biennio precedente, quando l’inflazione ha registrato livelli mai visti negli ultimi 40 anni. Più precisamente, l’aumento delle retribuzioni nella misura del 2,3% non è riuscito a recuperare quanto è stato perso in potere di acquisto nel 2022 (-3,3%) e nel 2023 (-3,2%). Si tratta del risultato peggiore tra i Paesi del G20, che riflette un trend ormai consolidato.
Se il lavoro si è impoverito è soprattutto perché il tessuto produttivo nazionale si è sfilacciato, come ha giustamente osservato Francesco Riccardi sulle pagine di “Avvenire”: nel corso degli anni i grandi player sono fuggiti via, la globalizzazione ha fatto emergere attori economici nuovi e particolarmente agguerriti, l’industria è crollata, la qualità dei servizi alle aziende non è migliorata, la produttività delle stesse aziende è rimasta al palo e si è rimasti ancorati a un sistema economico caratterizzato da piccole e medie imprese flessibili ma non all’avanguardia nello sviluppo di tecnologie e processi.
Ecco perché bisogna risolvere al più presto il problema del lavoro povero e, insieme con quest’ultimo, quello della bassa produttività del sistema economico nazionale. Ha poco senso limitarsi a discutere di salario minimo per legge, come se fosse uno strumento decisivo e generalizzabile, quando invece dovrebbe essere utilizzato solo in maniera sperimentale e limitata per non penalizzare la contrattazione che resta in grado di tutelare più efficacemente la generalità dei lavoratori. Piuttosto, è indispensabile estendere i contratti, ridefinire materie e pesi nei nuovi scenari, legare la partecipazione dei lavoratori ai risultati delle imprese, agire ancora sulla leva fiscale per alleggerire il peso sul lavoro salariato e aumentarne quello sulle rendite, stimolare la produttività delle imprese. A meno che non si voglia assistere ancora al balletto dei numeri, senza comprendere il dramma di chi quotidianamente lotta per non piombare nella povertà.
Bentornato,
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