L’autonomia e la classe dirigente

È molto probabile che il dibattito sull’autonomia differenziata, che ha animato in modo acceso il confronto tra le forze politiche nelle scorse settimane, come tanti italiani andrà “in vacanza” e nessuno se ne ricorderà almeno fino a settembre, quando puntuale tornerà alla ribalta. È il momento, dunque, di approfittare di questo abbassamento “stagionale” dei toni e della polarizzazione, in particolare quella di una nuova contrapposizione tra Nord e Mezzogiorno del Paese che la riforma ha innescato, per tentare una riflessione soltanto apparentemente marginale rispetto al quadro generale che investe lo “stato di salute” della classe dirigente del centrodestra proprio all’interno delle nostre regioni meridionali.

Il quadro che emerge, va detto subito e in modo netto, non è proprio esaltante e ciò che di positivo c’è, perché sarebbe errato e miope negarlo, ha ancora una capacità assai fragile di incidere sui processi nazionali e condiziona in misura piuttosto limitata l’agenda mediatica del dibattito pubblico.

Eppure, come spesso capita in queste occasioni, ogni momento di crisi si nasconde al tempo stesso anche un’occasione unica e irripetibile per cogliere l’opportunità che evidentemente mancava nello status quo.

L’autonomia differenziata è per il centrodestra meridionale prima di tutto un’occasione di riscatto e di protagonismo. E non importa che il governo nazionale sia oggi espressione della medesima coalizione, perché chi sventola questa coincidenza come alibi del proprio immobilismo lo fa forse per coltivare qualche piccolo interesse localistico e poco o niente di più.

I quattro presidenti di regione eletti per il centrodestra – Marco Marsilio in Abruzzo, Vito Bardi e Roberto Occhiuto rispettivamente in Basilicata e in Calabria, Renato Schifani in Sicilia – potrebbero prendere la palla al balzo per ridare fiato a una stagione di neo-meridionalismo che non si limiti passivamente a mendicare o barattare qualche finanziamento in più, ma che sappia innanzitutto far crescere attorno alle loro esperienze di governo una classe dirigente politica.

Più che un centrodestra in senso lato, sono in particolare Forza Italia e Fratelli d’Italia – che a dispetto della Lega dal Volturno in giù non scontano quel motivato pregiudizio storico che invece ha impedito al partito di Matteo Salvini di radicarsi e crescere nonostante il buon risultato alle europee del 2109 – le due formazioni che hanno l’interesse di scopo per “arare”, “seminare” e “irrigare” un campo oggi “incolto” dove far crescere una classe dirigente che raccolga generazionalmente il testimone e che sia territorialmente diffusa, credibile e autorevole.

Un tempo queste “palestre” erano diretta emanazione delle organizzazioni partitiche che avevano un interesse vitale a promuoverle nei singoli territori. Negli ultimi vent’anni, tuttavia, la progressiva leaderizzazione della politica ha finito per prosciugare il canale della formazione, buttando via il bambino e l’acqua sporca. Ecco perché i succitati presidenti di Regione possono avviare questo processo pedagogico, ma per ovvie e diverse ragioni non potranno esserne fino in fondo i diretti protagonisti. Qui lo sforzo maggiore deve arrivare dal basso, a partire dai sindaci, dagli amministratori locali, dai dirigenti di periferia, dal civismo e dalle forze sociali, maggiormente attenti a valorizzare con intelligenza e sfrontatezza le loro esperienze di frontiera, perché diversamente come già dimostrato le scelte calate dall’alto si sono servite della cooptazione e non della selezione, della fedeltà debole piuttosto che della meritocrazia.

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