Le notizie che giungono da Roma sono tutt’altro che rassicuranti. E, sul futuro dell’ex Ilva, non offrono alcuna certezza se non una: dopo aver celebrato il funerale di chimica, alluminio e (in parte) automotive, l’Italia si appresta a intonare il “De profundis” anche per l’acciaio. Il tutto senza che i leader nazionali dei partiti dicano una parola sul pericolo di imminente chiusura di una fabbrica, come quella di Taranto, che manderebbe sul lastrico circa 13mila famiglie tra quelle degli operai e quelle dei lavoratori dell’indotto.
Già, perché l’ex Ilva è agonizzante e, se dovesse morire, moriranno con lei la produzione nazionale di acciaio e una parte consistente dell’economia pugliese: uno scenario apocalittico che, tuttavia, ai big della politica italiana sembra interessare poco o nulla.
Il disinteresse accomuna destra e sinistra. Dopo aver risposto alle domande dei giornalisti nella tradizionale conferenza stampa di fine anno (posticipata al 4 gennaio per i suoi problemi di salute), Giorgia Meloni non ha pronunciato una sola parola sulla questione dell’ex Ilva: non sul “gran rifiuto” opposto da ArcelorMittal all’aumento di capitale pubblico proposto dal governo italiano, non sui comprensibili timori manifestati dai sindacati, non sulle prospettive di amministrazione straordinaria o commissariamento della fabbrica. Niente. Ieri la presidente del Consiglio ha incontrato gli alleati Matteo Salvini e Antonio Tajani ma, stando a quanto trapelato da Palazzo Chigi, nel corso del vertice si è discusso soltanto di immigrazione. Un passaggio sull’ex Ilva? Macché. Ancora più incredibile il silenzio del vicepremier Salvini, abituato a intervenire anche sulle questioni più banali. Negli ultimi giorni il leader leghista si è espresso sul rinnovo delle concessioni ai balneari, suo vecchio cavallo di battaglia, e sulle prossime elezioni europee, annunciando che non sarà lui a guidare le liste della Lega. Anche da lui, così come dal leader berlusconiano Tajani, nemmeno una parola sulle acciaierie in agonia.
Chi si attendeva maggiore attenzione dal fronte opposto, quello dei sedicenti eredi dei partiti dei lavoratori e del movimento operaio, è rimasto parimenti deluso. Da giorni Elly Schlein si straccia le vesti (rigorosamente suggerite dal suo armocromista, s’intende) per i saluti romani con cui centinaia di nostalgici del fascismo hanno commemorato la strage di Acca Larentia o per le migliaia di palestinesi morti a Gaza. Tutto giusto, per carità, ma sarebbe più logico se la segretaria nazionale del Pd protestasse con altrettanta veemenza contro il progressivo “spegnimento” Non meno assordante il silenzio di Paolo Gentiloni, commissario europeo agli Affari economici, che ieri ha fatto sapere che non si ricandiderà all’Eurocamera e che tornerà alla politica attiva in Italia: un annuncio che, però, non è stato “condito” da alcun riferimento a un tema strategico per l’economia come il futuro dell’ex Ilva.
Insomma, dopo aver perso chimica, alluminio e automotive, l’Italia si prepara ad assistere al funerale dell’acciaio nel quasi totale disinteresse della politica e senza che sia stato rinnovato il terziario, ancora poco competitivo e soprattutto immune alla concorrenza e all’innovazione. Tutti ne sono più o meno consapevoli, ma tutti preferiscono far finta di non vedere. Con buona pace di migliaia di famiglie che rischiano di sprofondare nel baratro della disoccupazione e della povertà.