Le trasformazioni del lavoro degli ultimi decenni hanno prodotto un notevole impatto sulla vita organizzativa delle aziende influenzandone, non sempre positivamente, le relazioni, il senso di appartenenza e il livello di motivazione. Incertezza e ambiguità appaiono come le caratteristiche costitutive dell’esperienza lavorativa contemporanea. Si osserva una divaricazione, talvolta netta, tra dichiarazioni idilliache a sostegno del potenziamento e dello sviluppo dei lavoratori e comportamenti gestionali intenti a ottenere risultati immediati attraverso forme obsolete di comando, esecuzione e controllo.
In tale cornice, il dopo pandemia ha dato la stura a due fenomeni diversi per esiti ma accomunati da motivazioni simili: le grandi dimissioni (Great Resignation) e l’abbandono silenzioso (Quiet Quitting). Le dimissioni volontarie, una vera e propria fuga dal lavoro, sono state negli anni 2021 e 2022 più di 4 milioni: un paradosso, considerato il mercato del lavoro italiano che presenta tassi di occupazione e di attività tra i più bassi d’Europa.
I dati relativi alle dimissioni volontarie sono facilmente rilevabili e trattabili statisticamente, diversamente dal nuovo fenomeno dell’abbandono silenzioso che, invece, consiste in una ridefinizione “soggettiva” del proprio rapporto di lavoro. Ossia, il quiet quitter ridurrebbe l’impegno dedicato allo svolgimento delle proprie attività lavorative sia in termini quantitativi, nel fare l’indispensabile pur nel rispetto dei compiti assegnati e dell’orario di lavoro, sia manifestando un modesto coinvolgimento.
Assistiamo a una diffusa disaffezione al lavoro e, come riferisce il V° Rapporto Censis, a un “declassamento valoriale del lavoro, non più epicentro delle vite e delle aspirazioni, ma riportato al rango di una delle tante attività di cui si compone il puzzle quotidiano delle vite individuali” .
Il lavoro perderebbe un suo specifico connotato, quello di attribuire status e riconoscimento sociale e professionale, riducendo la rilevanza avuta fino a qualche decennio fa. Nella vita di gran parte dei lavoratori crescerebbe l’importanza di fattori alternativi: più tempo per sé stessi, meno tempo da dedicare al lavoro, più tempo da destinare alla famiglia e alle proprie passioni e conseguente rifiuto dello straordinario e di ogni altra attività che ecceda i compiti definiti contrattualmente. In particolare sono i lavoratori più giovani che sembrano mostrare maggiore attenzione alle proprie esigenze di benessere e a una più elevata qualità della vita, chiedendo alle aziende tempi di lavoro più facilmente conciliabili con la vita privata.
Secondo un’indagine di Gallup Poll la percentuale di lavoratori italiani soddisfatti del proprio lavoro è appena del 4 per cento mentre l’82,3 per cento è insoddisfatta e ritiene di meritare di più. Insomma, una buona parte dei lavoratori italiani mostra un rapporto strumentale nei confronti del proprio lavoro che viene considerato come una modalità per ottenere il denaro necessario per vivere o dedicarsi ad altro.
Non solo, oltre al mutato atteggiamento nei confronti del lavoro, le caratteristiche strutturali del mercato del lavoro italiano non facilitano un incontro soddisfacente tra domanda e offerta. Purtroppo, la quota delle professioni intellettuali è in Italia tra le più basse d’Europa e non crescono in misura soddisfacente gli occupati nell’istruzione, nella sanità e nei servizi alle imprese: pubblicità, marketing, consulenza tecnica e manageriale, ricerca e sviluppo, gestione delle risorse umane.