La violenza dominata dalla cultura del “tutto e subito”

Alla luce degli innumerevoli episodi di violenza a discapito del personale sanitario è importante riflettere sul significato che questi eventi sempre più dilaganti vogliono restituirci.

La violenza è stata definita da sempre come l’ultimo rifugio degli incapaci, incapaci che sono individui non in grado di comunicare in maniera assertiva e che trovano nella violenza l’unica modalità attraverso la quale trasmettere dei messaggi che una cultura del rispetto a partire dalla famiglia e dalle istituzioni non è stata in grado di essere correttamente veicolata.

Il richiamo alla famiglia ed alle istituzioni è in questo caso inevitabile, poiché è proprio all’interno delle istituzioni incluse quelle sanitarie che si sviluppa il concetto di cura, quella stessa cura che ora viene ad essere colpita e tradita. C’è da chiedersi come è possibile che il concetto di cura che dovrebbe racchiudere connotazioni positive come il sacrificio di chi si prodiga per il prossimo non per un mero giuramento ma perché il proprio essere si sposa con la propria missione, quella del salvare delle vite umane, dell’agire per il massimo bene dell’altro, il calore di una carezza, il conforto nella comprensione empatica, finiscono per declinarsi in episodi di paradossale violenza rivolti proprio contro chi dovrebbe perpetrare amore attraverso la cura del corpo e dello spirito dell’altro da sé.

Il concetto del “to care” rimanda in psicologia alla funzione di holding materno, avente il compito di adattarsi attivamente ai bisogni dell’infante fungendo da schermo protettivo verso il mondo esterno, ma nel tempo di diminuire tale supporto al fine di accrescere gradualmente la capacità di rendersi autonomo ed indipendente, migliorando al tempo stesso la capacità di tollerare la frustrazione in un mondo sempre più complesso.

La possibilità per la madre di fornire delle cure adeguate dipende anche dal sostegno del padre. La funzione paterna funge da sostegno nella separazione madre/bambino, ed è fondamentale per impedire il rapporto simbiotico, malsano, della diade, favorendo il processo di separazione e individuazione del proprio figlio. Se questo processo di svincolo non avviene, il rapporto madre/figlio rimane incistato in dinamiche di dipendenza e vincoli castranti, nutrendo sentimenti fortemente ambivalenti nei confronti del caregiver fino all’età adulta. All’interno di un funzionamento psichico disfunzionale dove la capacità di distinguere il sé dall’altro da sé è ridotta, si può compiere violenza per espellere uno stato intollerabile della mente. Pertanto la famiglia non può essere sempre considerata come un luogo di protezione dalle minacce esterne ma può costituire un luogo di disagio per il minore a causa anche di una serie di abusi fisici e/o psicologici subiti dalle figure primarie.

Accanto a tali aspetti, c’è da considerare anche il fattore socio-culturale: siamo intrisi in una società in cui le coordinate spazio-tempo sembrano essere andate in frantumi, dominate dalla cultura del “tutto e subito”, in cui il tempo dell’attesa è in ogni età considerato come frustrante e inaccettabile, proprio quel tempo che è indispensabile nello sviluppo soprattutto degli adolescenti per imparare a gestire se stessi e le proprie pulsioni; allo stesso modo e conseguentemente alla incapacità di evolversi e maturare uscendo dall’adolescenza, in età adulta vi è la stessa difficoltà nel gestire l’attesa, anche all’interno di una sala ospedaliera, che diventa un problema di vuoto interiore personale da gestire. In tal senso, Lewin sosteneva che il campo esteriore, cioè quello della vita reale, riflette quello del mondo interiore o intrapsichico richiamando le scene primarie della nostra evoluzione.

Pertanto, alla luce degli aspetti emersi, è possibile riflettere sugli episodi di violenza più o meno gravi, fino al fenomeno noto in criminologia clinica con il nome di parricidio, che possono essere interpretati come un riflesso di quanto si sviluppa nel rapporto violento tra paziente e personale sanitario.

In tutto questo, si pensa di correre ai ripari, cercando di arginare il fenomeno nelle sue conseguenze, proponendo una maggiore sicurezza anche da parte delle forze dell’ordine e stabilendo misure deterrenti più rigide, ignorando invece dinamiche più profonde sottostanti a questi tipi di fenomeni, come per esempio l’acquisizione della capacità di saper gestire la frustrazione all’interno dei contesti educativi, attraverso appropriati percorsi psicologici mirati alla prevenzione di tali eventi traumatici, attraverso la rieducazione delle figure di riferimento adulte che sappiano meglio gestire le emozioni per trasmettere un modello parentale equilibrato e delimitare il senso del confine rispetto alle nuove generazioni.

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