Era il 19 dicembre dello scorso anno quando Emanuela, dopo un’atroce agonia, moriva a causa delle violenze fisiche perpetrate su di lei dal marito. Si chiudeva così un anno, che aveva visto 107 donne uccise da una persona che avrebbe dovuto rispettarle, proteggerle, amarle, anzi che spesso diceva di amare così tanto la compagna, da non poter vivere senza di lei e non comprendendone le scelte, la soffocava con una gelosia patologica.
Un amore malato, viene definito convenzionalmente, ma non si tratta di amore, ma solo di una forma parossistica di possesso. Chi ama non fa del male, mai! E sono passati solo cinque giorni nel nuovo anno ed ecco che le cronache hanno raccontato la storia di Eliza Stefania, 29 anni, sposata solo da otto mesi.
Anche lei vittima di chi aveva promesso di amarla e riaspettarla, in salute e malattia, fino a che la morte non li avesse separati. E allora indigniamoci, dissociamoci da una società che lascia morire nel silenzio e nella solitudine una donna ogni tre giorni, ma poi chiediamoci perché succede questo? Un femminicidio non comincia quando un uomo prende un coltello o una pistola, ma quando a scuola un ragazzo dice a una compagna che non può fare qualcosa perché è femmina o quando un fidanzato dice alla fidanzata tu sei mia.
Il femminicidio non nasce dalla violenza fisica, ma dalle parole, perché le parole creano schemi mentali, che sono convinzioni e mentre si radicano nell’Anima determinano connessioni sinaptiche che determinano comportamenti, cioè azioni. Le nostre azioni!