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La tutela dei diritti in riva al mare non può essere “fai-da-te”

Questo contributo è stato scritto con Flavio Tropiano

In un Paese in cui la legge dovrebbe garantire l’uguaglianza, sono le eccezioni virtuose a fare notizia. E questo, più che un motivo d’orgoglio, è una diagnosi impietosa. Prendiamo il mare, ad esempio. Elemento naturale, teoricamente democratico, che dovrebbe accogliere chiunque sotto il sole di luglio. Ma la realtà è ben diversa: per molte persone con disabilità, il mare resta una cartolina inaccessibile, un miraggio complicato da burocrazie, mancanze strutturali e barriere culturali ben più insidiose di quelle architettoniche.

La legge 104 del 1992 è chiara: i titolari di concessioni demaniali devono garantire l’accesso al mare per le persone con disabilità, dotandosi di ausili adeguati, personale formato e infrastrutture idonee. Eppure, nella maggior parte dei casi, ci si affida alla buona volontà delle associazioni del territorio. È il trionfo del paradosso: lo Stato legifera, ma non garantisce. Così l’associazionismo, nato per agire in sussidiarietà, finisce per sostituirsi alle istituzioni, raccogliendo fondi per costruire passerelle, acquistare sedie Job, formare volontari.

A Monopoli, per fortuna, qualcosa si muove. L’iniziativa “A mare con noi”, promossa dal Comune e da una rete di lidi privati, offre accesso gratuito a servizi e ausili per disabili gravi e i loro caregiver. Una prassi che dovrebbe essere norma, non notizia. Eppure, come ci ricorda Italo Calvino, «la città giusta si riconosce da come accoglie chi è più fragile».

Tuttavia, anche la spiaggia più accessibile rischia di diventare un luogo ostile se la cultura del rispetto viene meno. Lo dimostra un episodio recente avvenuto su una spiaggia del barese, dove un gruppo di ragazzi ha aggredito chi li aveva semplicemente invitati a raccogliere i rifiuti abbandonati sulla sabbia. Una scena che racconta più di mille convegni sull’educazione civica: c’è una generazione che sta crescendo con l’idea che i diritti siano infiniti, ma i doveri opzionali.

E allora il problema è anche qui: nella mancata trasmissione di un senso collettivo di responsabilità. Dove manca l’empatia, la fragilità altrui diventa invisibile. Dove manca il rispetto, l’accesso alla spiaggia per una persona disabile diventa un favore, non un diritto.

È evidente che non possiamo più affidarci solo al volontariato per garantire l’essenziale. Scriveva don Lorenzo Milani: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».

Nel frattempo, le associazioni combattono battaglie che non dovrebbero esistere: per una rampa, per un bagno accessibile, per la gratuità di un servizio già previsto dalla legge. E ogni conquista, anche minima, richiede un’eco mediatica, una campagna social, una raccolta fondi. È il welfare del “chi fa da sé”, che funziona solo dove c’è chi ha tempo, competenze e coraggio di battersi.

Ma i diritti non sono regali né concessioni. Sono un patto tra cittadino e istituzioni. E fino a quando ci sarà bisogno di crowdfunding per garantire un diritto, allora significa che quel patto è rotto.

L’auspicio? Che un giorno non servano più articoli come questo. Che l’accessibilità sia la regola, non l’eccezione. Che la dignità sia un fatto, non una richiesta. E che l’Italia, bagnata da tre mari e ricca di leggi spesso ignorate, diventi davvero la “Repubblica democratica” che l’articolo 1 della Costituzione promette. Anche – e soprattutto – in riva al mare.

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