Bruxelles, 29 maggio 1985, ore 21,03. Dagli schermi Rai la voce di un affranto Bruno Pizzul affermava: «Ho accanto a me il responsabile della Uefa che mi conferma che ci sono 36 morti, mentre un’altra notizia che mi lascia piuttosto sconcertato è che la partita si giocherà».
Era la sera dei drammatici fatti dell’Heysel, quando prima dell’inizio della finale, di quella che allora si chiamava Coppa dei Campioni, il crollo di un settore dello stadio causò 39 morti e 600 feriti.
Il commento di Pizzul fu sobrio e rispettoso, aggiornando costantemente gli spettatori sulla situazione e sottolineando la drammaticità degli avvenimenti, senza cadere nella retorica o nella spettacolarizzazione della tragedia, tanto cara alla tv dei nostri giorni. E questo gentiluomo di altri tempi, dalla voce calda e inconfondibili, si è spento mercoledì nell’ospedale di Gorizia, dove era ricoverato da due settimane, tre giorni prima del suo 87esimo compleanno.
Dal 1986 al 2002 è stato il cronista di cinque Mondiali e quattro Europei, diventando il “cerimoniere delle emozioni collettive” di un intero Paese. Le sue parole hanno acceso le notti magiche e stemperato le sconfitte che fanno male. In un mondo di megafoni e urla, di volgarità e goffaggine, i suoi silenzi hanno riempito lo schermo.
Senza strafare o oltrepassare il limite, tenendo a mente sempre l’imperativo categorico del mondo greco, “kata metròn” (secondo misura), ha raccontato lo sport a tante generazioni. Ma da domani che calcio sarà senza Bruno Pizzul?