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La solitudine come selezione, una scelta silenziosa e radicale

Viviamo nel tempo delle connessioni facili, dei messaggi che arrivano istantanei, delle vite che scorrono sugli schermi con un’apparenza scintillante. Eppure, mai come ora, la solitudine si insinua silenziosa, tra una notifica e l’altra, tra un commento lasciato in sospeso e un cuore cliccato distrattamente. Dopo una certa età, o forse dopo un certo numero di delusioni, qualcosa cambia. Non si ha più voglia di drammi, di spiegazioni infinite, di conflitti che svuotano. Si comincia una selezione silenziosa e radicale: si sceglie di ridurre il rumore, si sceglie chi merita di restare, si sceglie di proteggere quella parte di sé che desidera pace.

In questa era digitale che invita all’accumulo, diventa rivoluzionario sottrarre. Dire “basta” a chi prosciuga energia, dire “no” a ciò che distrae dall’essenziale, lasciare andare il superfluo che ingombra la mente e lo spirito. Si impara l’arte dell’indifferenza verso ciò che non nutre, verso chi chiede presenza senza offrire reciprocità, verso chi cerca solo una vetrina in cui specchiarsi.

La solitudine, allora, non è più un vuoto da temere, ma uno spazio da abitare. Un tempo per guardarsi dentro e capire cosa conta davvero, chi conta davvero. Un tempo per ritrovare profondità, per scegliere relazioni che non hanno bisogno di filtri, per imparare a tacere e a custodire le parole.

In questo presente fragile, la vera connessione non passa da un like, ma da uno sguardo che resta, da una parola che consola, da una presenza che non chiede di essere altro da ciò che sei.

Forse non siamo chiamati a riempire ogni silenzio, ma a restare, semplicemente, in ciò che conta.

Viviamo in un’epoca che ha smarrito il dolore vero. Han parla di una società che anestetizza ogni sofferenza attraverso lo scorrere rapido delle immagini, delle notifiche, delle reazioni istantanee, di un consumo che divora emozioni e ne rigetta l’eco. La “società senza dolore” non elimina la sofferenza, ma la svuota di significato, trasformandola in disturbo da rimuovere, in fastidio da ridurre a un post o a un farmaco.

Il dolore diventa così invisibile, perché non trova più spazio di parola. L’assenza del dolore vero genera superficialità, perché toglie profondità alla gioia, alle relazioni, alle scelte. Se non si soffre davvero, non si ama davvero. Se non si conosce la ferita, non si può davvero guarire, né prendersi cura.

Simone Weil ha scritto che “l’attenzione pura è preghiera” e che il dolore ha la capacità di renderci realmente attenti alla realtà, togliendoci le illusioni. Il dolore, nella sua essenza, è luogo di incontro con il limite, ma anche possibilità di sguardo verso l’altro. Weil parla di un dolore che non è da idolatrare, ma da attraversare con dignità, trasformando la sofferenza in una tensione verso la giustizia e verso la compassione, come atto di condivisione silenziosa.

Oggi servirebbe una pedagogia del dolore: imparare a stare accanto a chi soffre senza la fretta di risolvere, custodire la vulnerabilità come parte costitutiva della condizione umana, riconoscere che non tutto si può comprare, non tutto si può evitare.

In uno dei suoi pensieri più semplici e profondi, Don Tonino Bello scrisse che «Non basta sopportare il dolore. Bisogna portarlo. Anzi, bisogna portarlo insieme». Per Don Tonino, la sofferenza non è mai fine a se stessa: è invito alla fraternità, alla carezza, a non lasciare soli coloro che portano pesi insopportabili. È nel portare insieme il dolore che nasce la speranza, quella luce che “non si spegne” e che trasforma le ferite in segni di risurrezione.

Il dolore vero ci fa umani. Ci ricorda che la vita è un graffio, strappa radici, spezza futuro, lascia domande nella polvere del cuore. Ma in quel graffio, nella fatica del dolore, si accende un attimo di luce che non si spegne, se impariamo a guardarci negli occhi, a non chiudere la porta al pianto, a camminare insieme anche quando la strada è in salita.

Perché il dolore, se vissuto con coraggio e condiviso con amore, può diventare la più alta forma di cura per l’umanità.

È necessario recuperare la dimensione della lentezza. Tenere stretta la quiete che ci abita, custodire il silenzio che ci protegge, scegliere chi sa restare nella verità di uno sguardo.

Perché ciò che conta non fa rumore, ma resta.

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