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La ricetta per riscoprire il senso di comunità

Uno dei fenomeni più evidenti del nostro tempo è la progressiva erosione del senso di comunità. La comunità, intesa come luogo di appartenenza, di rete di solidarietà e di condivisione, ha rappresentato per secoli un pilastro della vita sociale: famiglie estese, vicinati solidali, associazioni culturali, religiose o mutualistiche hanno garantito coesione e sostegno reciproco, creando un tessuto in cui l’individuo non era mai del tutto solo.

Oggi, però, questi legami si vanno riducendo, lasciando spazio a forme sempre più marcate di isolamento. Ne risulta una società dove il legame sociale appare fragile, intermittente e poco affidabile: nei quartieri i vicini si conoscono sempre meno, persino nello stesso palazzo ci si limita spesso a un saluto distratto; i nuclei familiari sono sempre più piccoli e, in molti casi, frammentati; le associazioni tradizionali registrano cali di partecipazione, mentre anche le forme di volontariato registrano difficoltà a garantire continuità; i ritmi frenetici della vita quotidiana e la mobilità lavorativa hanno ridotto il tempo e l’energia da dedicare alle relazioni interpersonali. L’erosione della comunità si traduce in una solitudine crescente e diffusa.

Non si tratta solo di vivere soli, condizione che riguarda ormai milioni di italiani, ma di sperimentare distanze affettive e relazionali anche quando si è circondati da altri. Questo isolamento ha conseguenze concrete: aumento di ansia e depressione, calo della fiducia nelle istituzioni e nel prossimo, rifugio in atteggiamenti individualisti e, nei casi più estremi, tendenze alla chiusura e alla polarizzazione sociale. Le ultime previsioni demografiche Istat, aggiornate al 2024, disegnano un processo di transizione all’interno del quale il peso dell’odierna struttura per età della popolazione è prevalente rispetto ai comportamenti demografici attesi. L’ulteriore aumento della sopravvivenza, la bassa natalità e le trasformazioni familiari confermano un cambiamento continuo nella struttura della popolazione, che comporterà un auto-rafforzamento del processo di invecchiamento.

Tra le radici di questo fenomeno spiccano l’individualismo dominante, che tende ad esaltare la competizione, l’autorealizzazione personale a scapito del bene comune.

La logica del “ciascuno per sé” si riflette nelle scelte quotidiane, nei modelli educativi e persino nelle relazioni lavorative, dove la cooperazione è spesso percepita come secondaria rispetto al successo individuale. La pressione a essere sempre produttivi riduce le occasioni di dedicarsi a una semplice chiacchierata, a una visita disinteressata, al tempo condiviso senza per forza uno scopo utilitaristico.

Un altro fattore cruciale è la crisi dei luoghi di aggregazione, un tempo motori di socialità e di coesione: piazze, biblioteche, oratori, circoli ricreativi e associazioni culturali si svuotano o faticano a rinnovarsi. La trasformazione urbanistica, l’omologazione dei centri commerciali come spazi “neutri” d’incontro e il calo di partecipazione civica hanno reso più difficile costruire relazioni stabili e radicate. La tecnologia, infine, che pure ha ampliato le possibilità di contatto ha offerto comunità virtuali di facile accesso, più veloci e meno impegnative, ha finito spesso per sostituire, più che arricchire, le interazioni faccia a faccia: iperconnessi digitalmente, ma sempre più poveri di relazioni autentiche.

La sostituzione del contatto reale con quello mediato dallo schermo non riesce a generare la stessa qualità di legame: mancano il calore, la corporeità e la continuità che alimentano la fiducia reciproca e il senso di appartenenza. Nonostante il quadro complesso, esistono esperienze che mostrano come si possa invertire la tendenza. Un esempio di buone pratiche ci viene dai “Condomini solidali di Torino: progetti di co-housing dove famiglie, single e anziani condividono spazi e servizi, trasformando l’anonimato condominiale in una rete di mutuo aiuto. Come pure anche le Social Street di Bologna, nate nel 2013, che hanno dimostrato che anche un semplice gruppo Facebook può diventare il motore di cene di strada, scambi di oggetti, sostegno quotidiano. Un altro esempio è quello dei Village Landais Alzheimer in Francia: comunità residenziali pensate per persone con demenza, che restituiscono appartenenza grazie a case condivise, attività comuni e relazioni autentiche.

Questi esempi dimostrano che la comunità può essere rigenerata non come nostalgia del passato, ma come progetto innovativo capace di adattarsi ai bisogni contemporanei. L’erosione del senso di comunità, in conclusione, non è un problema secondario, ma un nodo antropologico: senza appartenenza, l’individuo perde radici e orizzonti di senso. La sfida per la nostra società è allora quella di ricostruire legami che sappiano coniugare libertà personale e responsabilità collettiva, restituendo alla comunità il suo ruolo originario: essere luogo di cura reciproca e di speranza condivisa. L’uomo non si salva da solo: ritrovare il senso di comunità significa restituire all’individuo la possibilità di essere pienamente umano e tirarsi fuori dai “deserti di solitudine” che oggi si registrano anche nelle città più popolose.

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