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La ricerca spregiudicata del consenso

È una nuova Tangentopoli quella alla quale stiamo assistendo in Puglia ormai da qualche mese a questa parte? Possibile. Certo è che le inchieste in cui sono coinvolti il sindaco molfettese Tommaso Minervini e l’assessore regionale Alessandro Delli Noci (entrambi innocenti fino a prova contraria) rivelano un tratto diverso rispetto alla bufera che, tra 1992 e 1993, spazzò via la Prima Repubblica e un’intera classe dirigente.

Se all’epoca i politici pilotavano appalti in cambio di denaro, con il quale finanziavano poi l’altrimenti insostenibile attività dei partiti e talvolta anche le proprie tasche, oggi l’ipotesi è che i politici agevolino gli amici non in cambio di soldi ma di consenso.

È quanto emerso anche da altre inchieste e processi che, a Bari e dintorni come a Brindisi, hanno acceso i riflettori su presunti appalti truccati in cambio di sostegno elettorale.

Che cosa ci dice tutto ciò? Di sicuro una cosa: in un contesto in cui alle urne si reca un numero sempre più basso di elettori, in cui la mobilità tra gli schieramenti è maggiore mentre è minore la divaricazione ideologica, la volatilità del consenso spinge molti politici ad assicurarselo per vie traverse. E cioè, almeno nella ricostruzione offerta dalle Procure, concedendo favori e assegnando appalti agli amici. E questo, molto probabilmente, succede perché la politica ha perso punti di riferimento indispensabili come il partito, l’ideologia e la gavetta nelle istituzioni.

Finiti questi, non restano che le scorciatoie, i sotterfugi, i legami più o meno equivoci e spregiudicati. È un tema sul quale bisognerebbe aprire una riflessione seria, soprattutto in vista delle regionali.

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