Oramai invadono troppi muri di città e intere cittadine e borghi. I murale colorati spuntano come margherite su una rotonda: una bambina che abbraccia il mondo, un vecchietto con gli occhi lucidi, una mano che stringe un’altra in un trionfo arcobaleno.
Il messaggio è sempre lo stesso: “Andrà tutto bene” – anche se fuori c’è la guerra, la disoccupazione, il cemento che mangia interi quartieri. Benvenuti nel mondo del murale istituzionale, quello approvato dal Comune, sponsorizzato dalla banca locale, pensato per non offendere nessuno. Muri “riqualificati” che, in realtà, anestetizzano. L’arte muraria è diventata soft, gentile, politicamente corretta fino all’autocensura. Un abbellimento urbano da brochure turistica.
Io preferisco l’anarchia sporca dei graffitari, quelli veri, quelli che scrivono “fanculo mondo!”, “free palestine–stop genocide” col pennarello sulla serranda di una catena multinazionale. Quelli che non chiedono permessi, non fanno progetti in Pdf e non vincono bandi comunali. L’arte di strada è diventata tappezzeria. L’ennesimo strumento di marketing urbano: servono a dire che il quartiere è cool, che è cambiato, che ora ci puoi venire a fare jogging in sicurezza. Peccato che dietro quel sorriso dipinto ci siano gli stessi problemi di sempre. La street art, da gesto ribelle, è diventata una cartolina: Urban Art.
Un tempo i muri parlavano con rabbia: oggi raccontano fiabe. E tutte con il lieto fine. Il graffito invece disturba, grida, interrompe il flusso addomesticato del paesaggio urbano. Non chiede il permesso. Non cerca il consenso. È un gesto spontaneo, a volte brutale, ma mai falso. È più vicino al linguaggio del corpo che a quello della pubblicità. I murale sono “belli”. Ma il graffito è vivo. Perché è presenza, conflitto, rivendicazione. È la città che si ribella, che si scrive addosso con sincerità.
Blù, street artist italiano di fama internazionale, a un certo punto ha detto basta. Ha cancellato i suoi stessi murale a Bologna, per protesta contro la loro musealizzazione. «La mia arte non è fatta per essere messa in una teca» disse. Tradotto: se l’arte urbana diventa salotto, ha fallito. E Banksy? Lui almeno gioca ancora con l’ironia. Ma anche i suoi lavori vengono staccati dai muri e venduti all’asta. Lo spirito originario della street art – quello punk, clandestino, incazzato – è sempre più difficile da trovare. Per fortuna, a tenerlo in vita ci sono loro: i graffitari. Preferisco l’ironia dei writer, alla morale dei murale.
Ci vogliono venti secondi per lasciare una tag, un’ora per fare un pezzo complesso. Nessun compenso, nessuna sicurezza. Solo il rischio, il buio, e la voglia di dire qualcosa senza chiedere il permesso. E spesso, quei messaggi sono più veri di mille murale infiocchettati con buoni sentimenti. Perché il graffito è ironico, ambiguo, crudele. È un linguaggio marginale, e per questo potente. Non vuole abbellire, vuole scardinare. Mentre i murale ci dicono cosa dobbiamo pensare, il graffito ci spiazza. C’è una differenza sostanziale tra un murales e un graffito. Il primo decora, il secondo contesta. Il primo si fotografa su Instagram, il secondo si cancella con l’acido. Ma il graffito rimane nella memoria, anche quando sparisce. Perché è un atto di libertà, non di decoro urbano.
E allora sì: ridateci i muri brutti, arrabbiati, irriverenti. Quelli che puzzano di vernice fresca e sudore, non di patrocinio. Meglio una tag sbilenca che mille arcobaleni approvati dal Comune. Viva l’anarchia dei writer, basta con il politically correct dei muralisti!
Ridateci i muri cattivi.
Bentornato,
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