Nonostante i suoi squilibri e i vizi di uno sviluppo tardivo, il capitalismo italiano ha espresso un modello con una sua originale peculiarità caratterizzata dalla presenza diffusa di piccole e medie imprese (Pmi) altamente specializzate, spesso organizzate in distretti industriali, che pur essendo di dimensioni contenute, hanno saputo conquistare posizioni competitive in specifiche nicchie di mercato a livello globale.
L’economia italiana ha potuto ancora crescere, seppur limitatamente, nel contesto della globalizzazione liberista, trovando un suo spazio. I settori trainanti di questa quarta fase di sviluppo del capitalismo italiano (dopo la prima fase del capitalismo familiare, la seconda del capitalismo fondato sul ruolo delle imprese pubbliche e la terza dei primi distretti industriali di piccole e medie imprese) sono ancora quelli tradizionali (meccanica, moda, tessile), ma con una capacità più elevata di proiezione esterna, in grado, cioè, di rafforzare la loro posizione sui mercati esteri formando gruppi internazionali attraverso l’acquisizione di imprese estere e creando vere e proprie “multinazionali tascabili”, come nel caso di Tod’s, Luxottica, Brembo, Indesit group.
Secondo dati Mediobanca circa 5mila imprese appartengono a questo modello, localizzate per la grande maggioranza nell’Italia settentrionale, concentrate soprattutto sull’asse Milano-Venezia, con un fatturato pari al 40-50% della produzione manifatturiera nazionale, in grado di operare in segmenti di alto valore aggiunto e di mantenere un vantaggio competitivo basato sulla qualità e l’innovazione, mobilitando un indotto di imprese di piccole dimensioni (circa mezzo milione), organizzate in filiera prevalentemente in distretti o sistemi produttivi locali.
Negli ultimi anni, queste aziende hanno mostrato performance positive in termini di fatturato netto (+15%), valore aggiunto (+18%) e fatturato all’esportazione (+56%). Tuttavia, nonostante il suo successo, il modello italiano di quarto capitalismo presenta una sua intrinseca debolezza proprio nella eccessiva specializzazione e dipendenza dalla domanda estera. L’eccessiva dipendenza da nicchie specifiche di mercato rende le imprese molto vulnerabili a cambiamenti nella domanda globale, a strozzature tecnologiche, alla concorrenza da parte di economie emergenti che potrebbero replicare o offrire prodotti simili a costi inferiori, ma soprattutto a chiusure di tipo protezionistico.
L’Italia mantiene costantemente un saldo commerciale positivo, a testimonianza della sua capacità di esportazione (nel primo trimestre 2025, il saldo commerciale complessivo ha registrato un surplus di 7 miliardi di euro), ma un aumento dei dazi verso un mercato come gli Stati Uniti, potrebbe mettere in crisi l’intero modello, che dovrebbe cercare altri sbocchi, difficilmente raggiungibili in tempi rapidi. Un altro elemento di debolezza è costituito dal mercato dei capitali che presenta un notevole sottosviluppo rispetto ai suoi omologhi europei e nordamericani. Nel 2021, la sua dimensione, calcolata come rapporto tra capitalizzazione di mercato e Pil, si attestava intorno al 45%, un valore sensibilmente inferiore rispetto al 150% del mercato francese o al 170% di quello inglese. Le offerte pubbliche sono lente e la raccolta di capitale sul mercato primario rimane molto limitata.
Le Pmi, in particolare, incontrano barriere considerevoli nell’accesso ai mercati dei capitali, dovute a elevati oneri amministrativi, costi di quotazione e complesse normative. Il sottosviluppo del mercato dei capitali in Italia rappresenta un collo di bottiglia molto critico per la crescita e la trasformazione delle imprese. La dipendenza eccessiva dal canale bancario o dall’autofinanziamento limita la capacità delle aziende di finanziare investimenti ambiziosi in innovazione, espansione internazionale o operazioni di fusione e acquisizione su larga scala. La difficoltà di attingere capitali dal mercato azionario, causa la costituzione di posizioni di rendita nel settore bancario. Un altro elemento di debolezza intrinseca in questa fase di sviluppo del capitalismo italiano è dato dall’ampliamento del divario Nord-Sud, che non è solo una questione di equità sociale, ma rappresenta un ostacolo strutturale per il capitalismo italiano nel suo complesso. Le minori opportunità lavorative, i tassi di povertà più elevati e la debolezza del Sud indicano un massiccio sottoutilizzo del potenziale umano e produttivo a livello nazionale. Questa frammentazione interna del mercato limita le economie di scala e gli effetti di rete che potrebbero beneficiare l’intero paese. Inoltre, le disuguaglianze sociali e territoriali possono alimentare l’instabilità politica e rendere più complessa la formulazione di politiche nazionali efficaci, poiché misure vantaggiose per una regione potrebbero essere insufficienti o persino dannose per un’altra. Questi squilibri sono un prodotto del modo in cui si è affermato storicamente in Italia lo sviluppo capitalistico e per essere corretti richiederebbero riforme profonde della società e dell’economia italiana.
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