La lingua volgare della politica

«C’è troppa frociaggine nei seminari». «Questa stronza». A Roma davanti ai cardinali il papa si è lasciato andare, ma sottovalutava che di questi tempi nulla è più conoscibile di una confidenza riservata. Uno scherzo da prete contro di lui, insomma.

A Caivano invece la frase pepata è stata volutamente detta dalla presidente del Consiglio, mentre salutava col migliore dei suoi (finti) sorrisi cordiali il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca.

Ci manca di sapere se don Patriciello si sia presentato a Vincenzo De Luca ricordandogli di esserne stato apostrofato come il Pippo Baudo della zona.

Una volta la classe dirigente in pubblico si controllava e solo in privato si lasciava andare a staffilate terribili. C’era ipocrisia? Certamente sì, ma questo significava anche marcare il rispetto per le istituzioni, la distinzione tra la responsabilità pubblica di guidare i comportamenti di fedeli o elettori ai quali mostrarsi migliori di quello che si era, dando dunque loro il buon esempio e la possibilità di un momento di autenticità umana, al quale lasciarsi beninteso andare soltanto stando al riparo da orecchie indiscrete.

Come quando i giudici delle corti superiori inglesi, in udienza mettono toga e parrucchino e questo serve a distanziarli dalle miserie umane delle quali ciascuno ― dismesso il ruolo ― soffre, perché nessuno è perfetto.

Oggi i potenti e visibili invidiano invece i partecipanti ai talk show e non vedono l’ora di correre a mettersi al loro stesso livello. Si accomodassero.

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