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La linea rossa che chiude le frontiere

C’è una linea rossa che unisce in maniera inquietante, a mio avviso, le recenti affermazioni del Ministro Valditara e del Ministro Piantedosi.

Il primo, in merito agli scontri fascisti di Firenze, afferma che certe iniziative come la lettera della preside Savino che invitava a riflettere sui focolai fascisti, “sono strumentali ed esprimono una politicizzazione che auspico non abbia un ruolo nelle scuole”; il secondo con uno sforzo di umanità a commento dei tragici e assurdi fatti di Cutro, ovvero della ennesima ipocrita e annunciata tragedia, afferma che “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”.

A parte che a Piantedosi vorrei chiedere cosa intende per disperazione e se ne ha mai avuto idea per rispondere così, mi colpisce un dato: in qualche modo entrambi parlano di figli. Di quelli che a scuola non devono studiare se non versioni, declinazioni di latino e greco e matematica con fisica annessa, e di quelli la cui vita non dovremmo mai mettere a repentaglio per nessun motivo.

Io un figlio non lo manderei in una scuola dove non trova il mondo e non acquisisce gli strumenti per leggere la realtà e incuriosirsi di nuove scoperte, un figlio che parla solo di nozioni tecniche e cognitive, un figlio che ripete a memoria storia e geografia e dante e letteratura, e non ha capito nulla del mondo che è lì fuori. Odierei una scuola che insegna l’educazione civica come materia e la richiede agli esami di maturità ma che non deve parlare di fascismo e di antifascismo, perché altrimenti è politicizzata. E dunque non deve parlare né di libertà né di Costituzione. Ma che comunque deve raccontare e rappresentare la storia d’Italia e deve insegnare ad essere cittadini e ad essere educati civicamente.

Io un figlio del genere lo vorrei proteggere per dargli le ali nel mondo.

E se questo significa andare via dal mio paese in fiamme e alla fame, dal mio paese dove può diventare un bambino soldato o essere rapito da Boko Haram, dal mio paese dove l’istruzione non c’è, dal mio paese che non ha futuro e non riesce a costruirlo se non con le armi, dal mio paese dove vestirà il burqa, io quel figlio lo manderei lontano, fuori, in posti dove può frequentare una scuola politicizzata che fa una buona educazione civica, che apre al mondo ed è luogo di discussione e confronto.

In fondo quello che mi spaventa è la dimostrazione di questi due ministri di un sistema di pensiero che annullando la formazione e azzerando la speranza del futuro obbliga a restare a casa, che sia la nostra o che sia quella di provenienza dei tanti migranti. Che impone di non diventare teste pensanti. E forse neanche vite che circolano e che rendano possibile l’avvenire.

Io ho paura che questa idea serpeggiante dei signori ministri sia così cieca da non aprirsi al confronto con la fame di cultura e con la disperazione di chi fugge. In fondo noi “che stiamo nelle nostre comode case” dovremmo ricordarci sulla spiaggia di Cutro che questo è stato perché qualche “passante indifferente” è passato senza farsene carico. Ora e di nuovo, davanti a Cutro e davanti al liceo Michelangiolo di Firenze. Davanti ai nostri occhi, sempre. E che tacere o rimandare indietro non è un’ipotesi di pianeta possibile: è piuttosto uno sguardo stretto, miope e piccolo che i giovani dovrebbero soppiantare.

Sia la scuola sia il viaggio nel mediterraneo sono frontiera. E la frontiera “per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore. Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima alle altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze. La frontiera corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai” (A. Leogrande, La frontiera).

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