Sono passati cinque anni da quando, in un giorno qualunque di fine febbraio, un uomo di 38 anni entrò nel pronto soccorso di un ospedale della provincia di Lodi.
Mattia, questo il suo nome, aveva febbre alta e difficoltà respiratorie. Fu trattato con i farmaci che normalmente vengono usati per i casi del genere e i medici, certi che non fosse stato in Cina negli ultimi tempi, tirarono un sospiro di sollievo: certamente non si trattava del “virus di Wuhan”. Ma grazie all’intuito di una dottoressa che suggerì di procedere con un tampone, venne fuori un risultato positivo, facendo sprofondare l’Italia in un incubo.
Il giorno successivo il Governo chiuse Codogno, a seguire Vo’ Euganeo. La psicosi si impossessò violentemente della gran parte delle persone che assistevano atterrite, in televisione, al bollettino dei morti. E poi le ambulanze che solcavano continuamente le strade, i camion dell’esercito carichi di bare, le corsie d’ospedale piene di sanitari bardati come astronauti, il lockdown, le canzoni sui balconi, gli asintomatici, il green pass, il vaccino, i no vax, i medici angeli, le mascherine, i guanti, il distanziamento per non creare assembramenti, i morti in ospedale senza l’affetto dei propri cari. In una parola, pandemia.
Da quel 21 febbraio del 2020, quando l’Istituto superiore di sanità confermò la positività a Sars-Cov-2, da parte del paziente 1, cosa è cambiato? Si diceva che ne saremmo venuti fuori migliori e che sarebbe stata potenziata la sanità territoriale, ma le parole, si sa, volano nel vento.
Bentornato,
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