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La giustizia sociale e l’impegno dei cattolici

Quando il 2 luglio 1871 il re Vittorio Emanuele II di Savoia entrò a Roma annettendo la “città eterna” al Regno d’Italia, molti pensarono che la caduta di Roma avrebbe coinciso con la fine della chiesa cattolica, il cui potere era ritenuto esclusivamente di natura temporale.

Nel 1878, però, ascese al trono papale Leone XIII (nato a Carpineto Romano il 2 marzo 1810, come Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci), il quale indirizzò la chiesa verso una nuova direzione con la quale spinse l’influenza del papato dentro la sfera della giustizia sociale ed economica, come mai era accaduto in precedenza.

Orientata a esplorare le ingiustizie e le disuguaglianze della Rivoluzione Industriale, la Rerum novarum (1891) di Leone XIII costituì il manifesto fondamentale di una Democrazia cristiana che permettesse alle istanze riformatrici del cristianesimo sociale di trovare finalmente una voce a livello politico.

Alla luce del contenuto della suddetta enciclica, la proprietà privata andava rispettata; i contratti si sarebbero dovuti negoziare liberamente tra il padrone e i lavoratori, ma mai si sarebbe dovuto trattare una persona come una merce, né un padrone avrebbe mai dovuto approfittare di un reale bisogno del lavoratore; trattando del salario, il principio ispiratore è l’inalienabile dignità della persona umana.

L’uomo deve essere riconosciuto tale anche quando è retribuito e deve avere, quindi, una quantità di salario che gli permetta il giusto sostentamento per sé e per la sua famiglia; il socialismo veniva considerata una dottrina fuorviante e completamente inaccettabile.

La dottrina sociale della Chiesa cattolica, del liberalismo rifiuta il presupposto individualistico e la libertà di concorrenza economica, che condurrebbero ad una lotta di tutti contro tutti, ove il più povero è destinato a soccombere.

Ma pure accettando, del socialismo, l’esigenza di proteggere le classi più umili contro quelle dei più potenti, rifiuta energicamente la tesi socialista dell’abolizione della proprietà privata.

D’altronde, l’Enciclica deve essere analizzata nel contesto dello scontro con l’ideologia marxista, che all’epoca incominciava a diffondere l’idea della vita sociale come lotta di classe senza compromessi.

A differenza di Pio XI e di Pio XII che, nel loro tempo e per le circostanze storiche, avevano manifestato forti preoccupazioni per il diffondersi dell’ateismo, specie quello militante, e del comunismo, considerati come fenomeni incompatibili con il patrimonio culturale cristiano europeo, Paolo VI (Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini) tenterà, invece, la strada del dialogo con i regimi ispirati al comunismo ateo.

L’enciclica Populorum Progressio è una delle più famose e importanti della storia della Chiesa, anche se contiene punti che sono stati oggetto di dibattiti (come il diritto dei popoli a ribellarsi anche con la forza contro un regime oppressore) e di feroci critiche negli ambienti più conservatori, dove questo documento venne tacciato infatti di essere vicino ad una dottrina sociale troppo clemente verso la sinistra e il suo pensiero.

Laddove Leone XIII e Pio XI avevano condannato il socialismo, Paolo VI lo difende.

Laddove i precedenti papi avevano difeso la proprietà privata, Paolo VI tocca l’egemonia perversa del denaro e la proprietà privata come bene non assoluto.

D’altro canto, essa è una logica deduzione della dottrina conciliare della Gaudium et Spes e dell’antica dottrina sociale della Chiesa, ma ne allarga gli orizzonti passando dalla condizione degli operai presa in considerazione dalla Rerum Novarum allo sviluppo dei popoli dell’intero pianeta. L’aspirazione allo sviluppo dei popoli viene considerato un chiaro “segno dei tempi”.

Per Paolo VI l’impegno dello sviluppo diventa un tema maggiore della missione della Chiesa. È un campo che deve essere evangelizzato.

Il periodo storico in cui viene pubblicata un’enciclica è molto significativo. Leone XIII si misurava con la lotta violenta tra classe operaia e padronato. Pio XI cercava di affrontare la questione della Grande depressione. Il messaggio di Pio XII superava le orribili distruzioni della guerra, mentre Giovanni XXIII rifletteva il clima di ottimismo dei primi anni Sessanta.

Tra il 1961 e il 1967 molte cose cambiarono.

Gli Stati Uniti entrarono in crisi sul fronte vietnamita, mentre l’Unione Sovietica era in continua ascesa.

Quasi tutti gli stati che avevano da poco conquistato l’indipendenza avevano optato per un governo autoritario e centralizzato di stampo socialista.

Gli stati a partito unico erano diventati la norma e sembrava che il comunismo di stile sovietico fosse diventato una struttura permanente nella politica internazionale.

La “coesistenza pacifica” era il massimo che si poteva sperare.

Se la Rerum novarum costituì il documento a fondamento della Democrazia cristiana, la Populorum progressio venne considerata il manifesto dei Cristiani per il socialismo.

Alla fine, lo scopo di questo documento era di trovare un posto per il messaggio cristiano nella situazione che si stava prospettando per il futuro, ma ciò significava rinunciare alla costante condanna del socialismo enunciata dai papi precedenti.

Ma già nel 1971 Paolo VI iniziò a correggere la propria prospettiva.

Nella Octogesima adveniens (che porta la data del 1971), il Papa torna alla tradizione dei suoi predecessori e non esita a definire apertamente la vera natura del marxismo.

Pur distinguendo tra le sue varie tipologie, afferma: “Sarebbe illusorio e pericoloso giungere a dimenticare l’intimo legame che tali aspetti radicalmente unisce, accettare gli elementi dell’analisi marxista senza riconoscerne i rapporti con l’ideologia, entrare nella prassi della lotta di classe e della sua interpretazione marxista trascurando di avvertire il tipo di società totalitaria e violenta alla quale questo processo conduce” (paragrafo 34).

La voce di Paolo VI è garbata, leggera, intellettuale, misurata, ordinata. Sebbene faccia occasionali riferimenti alla Populorum progressio, è chiaro che qui sta facendo appello alla coscienza, non all’azione.

Di fatto, ritorna al nucleo centrale dell’insegnamento sociale della Chiesa: “Il cristiano deve operare una cernita oculata ed evitare di impegnarsi in collaborazioni non controllate e contrarie ai principi di un autentico umanesimo, sia pure in nome di solidarietà effettivamente sentite” (paragrafo. 49).

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