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La giustizia e le riforme incompiute

A dispetto delle previsioni meno ottimistiche, le urne hanno restituito una maggioranza abbastanza ampia e definita. Il centrodestra unito ha vinto contro le tre formazioni opposte e nel prossimo Parlamento godrà di un numero di deputati e senatori astrattamente in grado di assicurare al governo un sostegno ampio e stabile. Meno chiara è la piattaforma programmatica del nuovo esecutivo né, al momento, si hanno notizie certe circa la compagine dei ministri compreso il “guardasigilli” (come si diceva un tempo). È pressoché sicuro solo che il “premier”, o meglio la “premier”, sarà Giorgia Meloni. Un altro fatto assodato è che nei 15 punti dell’accordo quadro siglato dalla coalizione vincente, il tema della giustizia è stato esplicitamente illustrato solo nel contesto delle riforme istituzionali e della pubblica amministrazione secondo Costituzione. I termini, in realtà, sono piuttosto generici, a parte la separazione delle carriere. È solo una sequenza di sigle: riforma del Csm, riforma del processo civile e penale, attuazione del giusto processo e della ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama; riforma del diritto penale e del diritto penale dell’economia; razionalizzazione delle pene e garanzia della loro effettività. I contenuti di questi slogan sono tutti da scrivere e forse persino da non scrivere. Sì, anche da non scrivere. Mi spiego. Negli anni scorsi, quasi tutti i governi che si sono succeduti hanno annunciato riforme più o meno epocali della giustizia penale, scrivendo e spesso riscrivendo questo o quel “pezzo” del sistema. Emblematica in tal senso è la vicenda della prescrizione che ha conosciuto alterne vicende, tanto da subire in poco più di quindici anni ben quattro modifiche radicali.

Una delle prime decisioni che dovrà assumere il nuovo governo sarà proprio quella di riformare o meno questa disciplina che forse costituisce uno dei lasciti più problematici del vasto e articolato plateau di interventi promossi dalla ministra Cartabia. È noto ai più che per modificare l’impostazione palesemente incostituzionale della “legge spazzacorrotti” senza perdere il sostegno dei Cinque Stelle, che avevano fortemente voluto l’eliminazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, è stata escogitato un compromesso che nella forma ha mantenuto questa soluzione, mentre “di fatto” l’ha superata prevedendo l’improcedibilità dell’azione penale dopo un certo periodo di tempo. Il nuovo esecutivo, al quale concorrono formazioni che avevano votato la seconda riforma (Forza Italia), formazioni che hanno votato la prima e la seconda riforma (Lega) formazioni che si sono opposte entrambe (FdI) dovrà decidere, quindi, se introdurre o meno le correzioni che appaiono necessarie di questi dispositivi o ancora una volta cambiare del tutto la rotta. Lo stesso vale per i molti altri interventi della riforma Cartabia sui quali il centrodestra si è spaccato. Perciò, prima di progettare nuove leggi, l’esecutivo che verrà dovrà decidere il destino delle riforme precedenti. Il tema sono le scelte di fondo, come il superamento del carcerocentrismo che caratterizza in positivo la riforma Cartabia, nonostante l’ispirazione prettamente utilitaristica evoca il vero e mai definitivamente affrontato convitato di pietra della giustizia: risorse, personale e strutture. Occorrono uffici nuovi (Bari è un esempio), nuove carceri, più personale amministrativo e magistrati. Gli uffici del processo possono non essere la soluzione migliore per spendere le risorse del Pnrr e lo stesso vale per gli interventi orientati a ridurre la selettività dell’accesso alla magistratura. Anche da questo dipendono le risposte alle domande sulla giustizia che verrà e a monte quella ancora più radicale: verrà giustizia?

Giuseppe Losappio è ordinario di Diritto penale all’università di Bari

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