Il sogno della sede giudiziaria unica nel capoluogo di regione si allontana perché, dopo due mesi dalla pubblicazione della graduatoria, il provvedimento di aggiudicazione non è ancora stato formalmente adottato e quindi i lavori non possono essere avviati.
Ricordiamo bene che, sino a sei mesi fa, il Governo e l’Agenzia del Demanio avevano annunciato che il primo lotto del cosiddetto “Parco della Giustizia” sarebbe stato consegnato entro la fine del 2026.
Purtroppo, però, il raggruppamento di imprese formato dalla Cobar di Altamura e dalla Società appalti costruzioni dei Cerasi di Roma, risultato vincitore della gara, non può concretamente programmare l’avvio dei lavori: il provvedimento definitivo di aggiudicazione della gara non è stato ancora formalmente adottato giacché la commissione incaricata per la valutazione delle offerte non ha ancora concluso le verifiche amministrative.
Il più grosso appalto da assegnare in Puglia, che prevede la realizzazione di un’opera imponente nell’area occupata da Caserme, resta in balia di un tempo ad oggi indefinibile anche perché sul suo percorso pende l’alea dell’immancabile strascico giudiziario instaurato da un ricorso promosso da un Comitato di scopo a tutela della destinazione dell’area a verde di quartiere.
Con ben altre velocità, si susseguono le riforme nell’ambito del diritto penale sostanziale e processuale che ostacolano l’andamento celere, e soprattutto rispettoso dei diritti e delle garanzie dei cittadini, della macchina della giustizia.
Si tratta in sostanza di riforme destinate a contribuire al collasso del sistema, già così soffocato dalle numerosissime richieste di giustizia a fronte di risorse risicate e di persone costrette ogni giorno a gettare il cuore oltre l’ostacolo, per ottenere risultati senza mezzi sufficienti e per raggiungere ambiziosi obiettivi esclusivamente con la forza della passione e dello spirito di servizio.
Mentre gli addetti ai lavori cercano di svuotare il mare con un secchio, si creano nuove fattispecie di reato che puniscono anche persone che si limitano ad esprimere passivamente il loro dissenso, si introducono nuove circostanze aggravanti, si costruiscono percorsi tesi ad impostare binari che rendono impossibile al giudice la valutazione di fatti e persone rispettando le singole peculiarità e adeguando la risposta dello Stato alla reale gravità del fatto singolo e alla personalità dell’individuo.
L’unica risposta che si vuole fare arrivare al cittadino è quella dell’immediata punizione, ovviamente identificata con quel carcere che continua a fabbricare suicidi, reati e sensazioni di inefficienza.
Si tratta di un sistema che paradossalmente non soddisfa né i cittadini che vorrebbero vedere uno Stato che punisce, poiché il sistema si scontra con la realtà e offre messaggi di inefficienza e inadeguatezza, né i cittadini che vorrebbero uno Stato che accompagna la persona in un percorso di graduale reingresso nella compagine sociale provando a renderla migliore anziché rinchiuderla in un recinto destinato ai cattivi ottenendo soltanto rabbia e desiderio di vendetta.
A fronte di questa situazione appena tratteggiata in queste poche righe, perviene la notizia di un difensore di una persona detenuta segnalato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza da parte della Direzione della struttura carceraria per avere salutato il proprio assistito stringendogli la mano e baciandolo sulle guance.
L’Unione delle Camere penali italiane è prontamente ed efficacemente intervenuta sull’argomento con le seguenti espressioni: «è davvero sconcertante l’idea stessa che si possa pretendere di valutare disciplinarmente la congruità di un gesto riconducibile evidentemente alla sfera insindacabile dei rapporti professionali e personali con l’assistito.
Ma è ancor più grave l’idea – si legge ancora – sottesa ad un simile inaccettabile sindacato, di totale disumanizzazione della persona del condannato, identificato esclusivamente con il suo reato e per questo privato di ogni sua residua umanità e dignità, anche nei rapporti con il proprio difensore».
Si tratta di un’iniziativa che lascia trasparire un pericoloso declino verso una cultura che identifica il difensore, baluardo dei diritti fondamentali della persona, con il suo assistito e con il reato che si assume commesso.
Il che allontana tutte e tutti dalla visione costituzionale della persona, dei suoi diritti, del processo e della pena, relegando sempre più l’universo carcerario ai margini della società anziché considerarlo come un luogo costruito per il recupero della dignità del singolo individuo sul binario della speranza.