Le elezioni americane sono già in archivio. Donald Trump ha riconquistato dopo quattro anni la Casa Bianca battendo la sua rivale democratica Kamala Harris e, al tempo stesso, ribaltando anche i sondaggi delle ultime settimane che invece ci raccontavano di una sfida che si sarebbe giocata all’ultimo voto, invece i risultati finali ci hanno poi detto così non è stato. Le ragioni sulle scelte di voto degli americani sono in questi giorni sotto la lente degli studiosi dei flussi elettorali, ma anche di sociologi, psicologi e dei tanti ricercatori che si occupano delle scienze sociali e provano a dare un senso alle motivazioni del voto. Tutti a chiedersi come mai rispetto alle elezioni del 2020 i democratici hanno perso oltre 14 milioni di voti, mentre a Trump è riuscita l’operazione di riportare alle urne lo stesso numero di elettori della volta precedente.
In attesa di leggere le analisi e gli studi dettagliati, però c’è un elemento oggettivo e incontrovertibile che può fornire una spiegazione alternativa dell’esito elettorale: è il tempo. Donald Trump ha iniziato la sua campagna elettorale almeno due anni prima delle elezioni, mentre Kamala Harris è stata costretta a rimpiazzare il presidente uscente Joe Biden ritiratosi dalla corsa dopo la metà di luglio. Quindi, meno di un mese prima della convention democratica di Chicago che l’ha poi impalmata come candidata del partito democratico statunitense e solo due mesi e mezzo prima del voto del 5 novembre. È stata la durata più che l’intensità della campagna elettorale il vero vantaggio sfruttato da Trump che gli ha consentito, oltre ogni previsione della vigilia, di allargare lo scarto dalla Harris, una durata che rappresenta anche la differenza tra le campagne elettorali americane e quelle italiane.
Dalle nostre parti, al contrario di quanto accade sull’altra sponda dell’oceano Atlantico, i partiti colpevolmente si riducono sempre all’ultimo minuto, le scelte vengono fatte un secondo prima della presentazione delle liste, molto spesso quando la selezione si riduce ai candidati peggiori perché quelli bravi sono stati tutti bruciati o, peggio ancora, sono scappati. In Italia, nonostante tutto conserviamo la pessima abitudine di voler scegliere i candidati non prima dello scoccare del novantesimo minuto, una prassi tristemente consolidata che resiste solo perché diventa il mezzo migliore per vincere quel poco di concorrenza che è rimasta, più si aspetta e tanto più è semplice favorire l’amico piuttosto che quello bravo. Più si dilatano i tempi della scelta, a danno degli stessi candidati e non di meno dei cittadini chiamati a votare, tanto più l’appartenenza e la fedeltà vincono sul merito e sulle competenze.
Donald Trump avrà vinto per cento diverse ragioni, ma tre queste c’è pure quella della lunghezza della campagna elettorale. Una durata che gli ha permesso di vivere, soprattutto digitalmente e mediaticamente, nella quotidianità degli americani. Questa presenza è diventata, proprio grazie al tempo, familiarità, vicinanza e normalità, a prescindere dalla adesione alle sue posizioni politiche. Il presidio dell’immaginario collettivo americano ha aiutato non poco il candidato a essere vissuto con minor divisività, a far sì che le sue idee si neutralizzino, passando dall’essere viste non più come proposte politiche elitarie, difficili da comprendere, bensì come argomenti che riguardano tutti noi, di cui possiamo discutere in metro o allo stadio, che toccano gli affanni della nostra quotidianità.
Questa è la distanza che tuttora separa anche l’Italia dagli Stati Uniti, che allontana più dei 7.765 chilometri Bari da Washington DC. Senza tempo i candidati diventano solo dei prodotti di un marketing inefficace, perché che non attira e non convince i consumatori a spendere e votare.
Bentornato,
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