C’era da giurarci: tra una dichiarazione indignata e un post solidale, l’Italia intera si è stretta attorno a Sigfrido Ranucci. Tutti, nessuno escluso. Dalla destra che da anni definisce i giornalisti d’inchiesta «militanti travestiti da cronisti», alla sinistra che ne invoca il coraggio solo quando serve a far dimenticare le proprie opacità, fino ai moderati che si dicono «a favore della libertà di stampa, ma…». Sì, tutti con Ranucci. «Attacco alla libertà di stampa!», «Toccato uno, toccati tutti!».
Peccato che passata l’onda emotiva, i giornalisti torneranno nuovamente soli, nelle redazioni grandi e piccole, a misurare con il righello ogni parola per non pestare piedi troppo potenti o troppo suscettibili. Presto si tornerà a storcere il naso se un cronista chiederà conto di un appalto poco chiaro nel loro comune, o se una testata di provincia pubblicherà un’inchiesta scomoda sul notabile locale. Perché, si sa, la libertà di stampa è bellissima, finché non ti riguarda.
L’attentato contro Ranucci non riguarda solo lui, non riguarda soltanto Report o la Rai.
Riguarda tutti noi, anche chi scrive da un piccolo ufficio con la stampante che tossisce e la connessione che cade, anche chi prova a raccontare verità scomode in città dove tutti si conoscono e ogni nome pesa come un macigno. Un ordigno piazzato sotto l’auto di un giornalista che da anni vive sotto scorta, non è solo un atto criminale. È lo specchio di un Paese dove il giornalismo d’inchiesta viene prima delegittimato, poi minacciato, e infine commemorato. Un rituale stanco e crudele, in cui si piange il coraggio che si è contribuito a isolare. Ma, nessuno può permettersi di sentirsi spettatore. Nemmeno chi scrive per le pagine di un piccolo giornale, con stipendi da fame e la certezza che un articolo «di troppo» possa costare inserzionisti e serenità. Anche lì, la libertà di stampa è una frontiera quotidiana. Non fatta di bombe, ma di silenzi: quelli imposti dal ricatto economico, dall’indifferenza, o dal comodo «non è affar mio». La verità è che nessuno può dirsi estraneo a quanto accaduto. Non lo sono tutti quei cronisti di provincia, che ogni giorno devono scegliere tra il dovere di raccontare e la convenienza di tacere. Non lo sono i lettori, che chiedono coraggio ma si infastidiscono se un’inchiesta tocca il loro amico, il loro partito, il loro datore di lavoro.
E non lo sono certo le istituzioni, che da anni tagliano fondi, chiudono spazi, e poi si stracciano le vesti quando qualcuno tenta di far saltare in aria la libertà che hanno lasciato marcire. Ora come da copione dopo l’attentato di Pomezia la difesa del giornalismo libero è venuta anche da chi, fino a ieri, dava dei «pennivendoli» a chi osava fare domande, o proponeva leggi per imbavagliare le inchieste. È il miracolo dell’ipocrisia istituzionale, quella che fiorisce rigogliosa ad ogni bomba o intimidazione, e appassisce appena spente le telecamere. Ma un Paese che difende il giornalismo solo quando esplode una bomba è un Paese che ha già perso la battaglia della verità.
Chi ha piazzato la bomba è un criminale al pari di chi giorno dopo giorno, prepara il terreno perché quell’ordigno sembri possibile. Sigfrido Ranucci è vivo, e per fortuna di tutti noi continuerà il suo lavoro. Ma il giornalismo d’inchiesta, in Italia, respira a fatica. E noi, da qui, oltre alla solidarietà dobbiamo ricordare a noi stessi e a tutti che ogni silenzio, ogni “non scriviamolo, è meglio di no, è una miccia accesa.













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