Nel XXI secolo, la libertà di espressione è formalmente garantita da tutte le democrazie moderne, ma mai come oggi ci troviamo davanti a nuove forme di censura, più sottili e meno riconoscibili rispetto ai divieti imposti da regimi totalitari del passato. È una censura, per dirla con Bauman, “liquida”, che non s’impone con la forza ma si insinua negli automatismi delle piattaforme e nelle dinamiche della pressione sociale; una censura che non vieta, ma scoraggia, che non reprime apertamente, ma induce all’autocensura. Il paradosso è evidente: in un’epoca in cui tutti possono parlare, molti scelgono di tacere. Il timore di essere etichettati, esclusi o “cancellati” pubblicamente porta sempre più persone ad autocensurarsi. La conseguenza è un impoverimento del dibattito pubblico e una crescente omologazione del pensiero.
Oggi buona parte del dibattito pubblico avviene sulle piattaforme social: Facebook, Instagram, X, TikTok e YouTube sono diventati i nuovi luoghi della conversazione collettiva. Ma questi spazi non sono regolati da costituzioni democratiche, bensì da policy aziendali opache e sistemi algoritmici che decidono cosa si deve vedere e cosa non si deve vedere, cosa può essere promosso e cosa deve restare nascosto.
Post rimossi, account sospesi e contenuti silenziati. Tutto può accadere, senza spiegazioni chiare e senza possibilità di appello. Questo vale per semplici utenti, ma anche per attivisti, giornalisti e studiosi che esprimono opinioni controcorrente.
Nel 2024, diverse Ong hanno denunciato il trattamento selettivo riservato ai contenuti sul conflitto israelo-palestinese: video, testimonianze e post critici verso uno dei due schieramenti sono stati rimossi sistematicamente, in alcuni casi su pressione di governi, in altri in base a criteri oscuri e non verificabili. Episodi simili si sono verificati anche durante le proteste in Iran, dove immagini e messaggi a sostegno dei diritti delle donne venivano cancellati o resi invisibili, impedendo la diffusione di informazioni cruciali. Un altro caso emblematico riguarda le mobilitazioni ambientaliste contro grandi progetti estrattivi o infrastrutturali: diversi contenuti pubblicati da attivisti locali sono stati etichettati come “disinformazione” o “contenuti sensibili”, ostacolando la visibilità delle denunce. In tempi più recenti, è apparso abbastanza evidente il sospetto di manipolazione degli algoritmi, con la palese intenzione di mettere in cattiva luce Francesca Albanese, la nostra connazionale, relatrice alle Nazioni Unite.
La censura non è più solo prerogativa degli Stati autoritari, ma può essere esercitata anche da aziende private, la cui sede è spesso a migliaia di chilometri da chi subisce le conseguenze delle loro decisioni. È innegabile che le piattaforme abbiano una responsabilità nel limitare la diffusione di contenuti pericolosi: hate speech, disinformazione, incitamento alla violenza. Tuttavia, quando la moderazione diventa selettiva e opaca, rischia di trasformarsi in censura. E a pagare il prezzo sono spesso le voci più critiche o minoritarie. Il rischio è quello di una censura invisibile, che non si impone con la forza ma con l’indifferenza dell’algoritmo. Una censura che omologa il discorso pubblico, che privilegia ciò che è neutro, conforme, inoffensivo, penalizzando ciò che è complesso, divisivo, sfidante. Ma la democrazia si nutre di dissenso, non di consenso forzato. Alla censura algoritmica si aggiunge una forma di censura più insidiosa: quella culturale. Viviamo in una società iperconnessa in cui ogni parola può essere decontestualizzata, usata contro chi l’ha pronunciata. Il risultato? Un clima in cui la paura di sbagliare supera il desiderio di esprimersi.
In questo contesto, la libertà di espressione rischia di diventare solo teorica. Se non si è liberi di essere impopolari, provocatori, persino imprecisi, allora il diritto di parola perde il suo significato più profondo. E allora? Come proteggere il diritto a esprimersi, senza cadere nell’anarchia comunicativa o nell’intolleranza? Come possiamo garantire un discorso pubblico libero, critico, ma anche rispettoso e informato? La risposta non può essere solo normativa. Certo, servono nuove regole trasparenti per le piattaforme digitali, come già tenta di fare, ad esempio, il Digital Services Act dell’Unione Europea, ma servono anche strumenti culturali. C’è molto da lavorare: sulla trasparenza negli algoritmi; sull’educazione digitale, per imparare a distinguere tra opinione legittima, propaganda e disinformazione; sulla cultura del dissenso, nel senso che dobbiamo abituarci a convivere con ciò che non ci piace sentire, persino con la provocazione. Occorre lavorare, innanzitutto, per una responsabilità condivisa: tra piattaforme, istituzioni, media e cittadini. “Se non crediamo nella libertà di espressione per le persone che disprezziamo – ammoniva Noam Chomsky – allora non crediamo affatto nella libertà di espressione.” Oggi più che mai, questo principio dovrebbe guidarci. La vera libertà non è dire ciò che tutti approvano. È poter esprimere idee controverse, scomode, impopolari. E senza il coraggio di affrontare anche ciò che ci disturba, non ci resta che il silenzio.
Bentornato,
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