La bestialità di una morte prevedibile

Quando una donna scompare, la prima cosa che si dà per scontata è che non torni più. Un epilogo che purtroppo si è immaginato anche per Giulia e per il piccolo che portava in grembo, fino a quando non è arrivata la confessione del suo assassino. L’uomo con cui viveva e che aveva premeditato di ammazzarla cercando in rete “come si uccide e poi si occulta un cadavere”. Me lo immagino con il suo smartphone a smanettare tra un cocktail e l’altro prima di rientrare a casa, e provo disgusto.

E il senso di nausea aumenta pensando alle decine di femminicidi commessi da ex mariti, ex findanzati, ex compagni che si stanno verificando con una frequenza così inaccettabile tanto da fagocitare perfino il tempo dello sdegno e della pietà. Una routine dell’orrore che non si ferma e miete vittime anche tra i vivi: madri, padri, sorelle, fratelli, figlie e figli. A loro, che resta il rimorso di “non aver capito” o di “non essere intervenuti”, le foto ricordo staccate dagli album e incorniciate per avere dinanzi agli occhi, le spese legali e le umiliazioni nei tribunali dove qualcuno gioca sempre facile sul famoso “se l’è cercata” per guadagnare sullo sconto di pena. Succederà anche per Giulia, sappiatelo. La prima frase che mi viene in mente è: “sapeva dell’amante ma è rimasta”.

E al disgusto e alla nausea si aggiunge la rabbia. Un femminicidio non può e non deve essere attribuito al caso perché è un fenomeno con radici culturali e sociali profonde che hanno determinato un senso di proprietà e di dominio degli uomini sulle donne che si manifesta con sempre maggiore impunità. L’unico modo per cambiare la storia è favorire fin dalla più tenera età attività che educhino i bambini al rispetto delle bambine, e quindi gli uomini al rispetto delle donne. Perché il possesso non è amore e le reazioni che genera sono distruttive tanto da arrivare a togliere di mezzo un essere umano.

Parliamo di quell’educazione al rispetto per cui noi giornalisti potremmo svolgere un ruolo fondamentale, se imparassimo a raccontare gli atti di violenza sulle donne utilizzando un linguaggio che non infierisca ulteriormente sulle vittime, che non usi toni “romanzati” e che non legittimi in qualche modo la brutalità dei carnefici. “La narrazione dei femminicidi come “dramma familiare” o “raptus di gelosia” giustifica la violenza, riducendola ad un fenomeno episodico. Le parole dei giornali, come le immagini, quasi sempre costruiscono delle attenuanti. Si sta lavorando perché questo cambi. GiULiA giornaliste lo fa puntando sulla formazione. Una scelta narrativa e iconografica stereotipata, genera ricadute fuorvianti nel modo in cui viene percepita la violenza maschile sulle donne. Dico sempre, che c’entra la foto della vittima e del carnefice insieme felici e contenti se si parla di un assassino? E finisco aprendo uno squarcio nel vortice di silenzio e morte. Mai smettere di combattere contro il silenzio e l’invisibilità. Proprio come fanno le madri, i padri, le sorelle, i fratelli e i figli di tutte le donne che non ci sono più, e che anche a distanza di decenni dalla loro morte non si stancano di far sentire la loro voce. Questo è vero amore, e non quello che chi ammazza una donna non ha mai conosciuto.

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