C’è un tratto inconfondibile della modernità digitale: il coraggio a rate. Lo si acquista a basso costo, con un clic, nascosto dietro una tastiera, meglio se sotto un profilo farlocco. Si tratta dell’altra fauna della nostra città: l’Homo vigliaccus digitans. Si palesa celandosi dietro lo schermo del computer, nascosto in salotti male illuminati, col dito grassoccio sospeso sulla tastiera come fosse una spada. Specie rara? Macché. In via di estinzione? Purtroppo no. La loro preda preferita: le donne. nel caso specifico, una donna che osa guidare una città, la sindaca Maria Aida Episcopo.
L’Homo vigliaccus digitans non conosce l’arte della critica, ignora la logica, aborre l’argomentazione. Il suo idioma è un misto di bestemmia da bar e turpiloquio da curva. Laddove un cittadino normale direbbe: “Non condivido questa scelta amministrativa”, il Leone preferisce: “Zitta che sei donna”. Certo non che manichino argomenti per dissentire con certe scelte politiche sociali e culturali di questa Amministrazione. Ma si preferisce il turpiloquio. Gli insulti sessisti non sono solo volgari: sono un atto di vigliaccheria. Non hanno nulla a che vedere con il dissenso politico, né con la critica civile. Sono piuttosto lo sfogo rancoroso di chi non tollera che una donna, per di più al comando, non chieda permesso. Un fenomeno di subcultura che confonde la libertà di parola con la libertà di insulto, e la virilità con la violenza verbale.
Si offendono le donne chiamandole con parole da caserma, si giudicano non per ciò che fanno ma per il loro corpo, per la loro voce, per la loro stessa esistenza nello spazio pubblico.
È il solito repertorio da bar, traslocato sui Social.
Dietro, chi c’è? Generalmente un individuo piccolo. Piccolo a lavoro, piccolo in casa, piccolo davanti allo specchio. Ma sulla tastiera un gladiatore con le ciabatte.
A casa si vanta di “dire la sua”, ma che poi in coda al supermercato abbassa lo sguardo persino davanti alla cassiera. Il difensore dei valori che non riesce a difendere nemmeno il proprio buon senso. In fondo, una parata di fragilità camuffate da arroganza. Ma attenzione: questi non sono solo “sfoghi isolati”.
Sono il sintomo di un problema culturale radicato. Perché insultare una sindaca significa insultare la città intera che l’ha scelta, significa ridurre la democrazia a un ring di squallore. Non è più solo questione di buona educazione: è questione di civiltà. Ad ogni insulto un neurone collettivo muore, e l’immagine della città si piega sotto il peso del ridicolo. Al di là delle diverse appartenenze ideologiche e politiche dobbiamo riconoscere che questo è odio.
È l’odio di chi, in fondo, ha paura. Paura delle donne che governano, paura del cambiamento, paura della propria irrilevanza. Intendiamoci non è escluso che dietro quegli insulti non si celi qualche manina del “gentil sesso” né che siano mani in pasta a certa politica.
Come difendersi? Va bene l’indignazione, va bene la denuncia, va bene la solidarietà, risposte e atteggiamenti che spesso celano una sostanziale sottovalutazione quanto non indifferenza verso questo fenomeno di viltà. Bisogna ridere, sputtanarli, sgonfiarli come palloncini bucati.
Allora, quando ci imbattiamo in un post del Leone foggiano, non indigniamoci soltanto: immaginiamolo nel suo habitat naturale, in mutande davanti al pc, con la panza che sfiora la tastiera, ciabatte di gomma, occhiali appannati e uno sguardo fisso sullo schermo come se stesse pilotando un drone militare. Individui condannati a restare prigionieri nel loro zoo digitale, esemplari patetici da osservare con ironia, appesi a un commento, a metà tra bestemmia e refuso, dimenticati dal mondo e soprattutto da se stessi.
Ridiamogli in faccia. Perché nulla brucia di più, per questo individuo fragile in ciabatte, che scoprire di essere ridicolo perfino quando insulta.