“Chi è causa del suo mal pianga sé stesso”: il proverbio ben si adatta alla condizione economica del nostro Paese. Lo rivela l’ultimo studio della Cgia di Mestre sull’impatto delle politiche comunitarie sull’economia italiana: tra il 2000 e il 2020, in tre cicli di programmazione, l’Unione europea ha investito complessivamente in Italia 123 miliardi di euro con risultati tutt’altro che positivi.
Nel 2000, dieci regioni italiane si collocavano tra le prime 50 per Pil pro capite e nessuna fra le ultime 50; nel 2021 ne sono rimaste solo quattro tra le prime 50, mentre in coda, tra le tra le ultime 50, sono scivolate ben quattro regioni (inclusa la Puglia). E il tasso di occupazione, in Italia, resta inferiore di ben 20 punti percentuali alla media europea. A complicare la situazione è stato anche il sensibile peggioramento del dualismo Nord-Sud. In termini di Pil pro capite, se consideriamo pari a 100 il dato del 2000, dopo venti anni troviamo che l’indice è sceso a 93,8 nel Centro, a 94,9 nel Mezzogiorno, a 98,7 nel Nord-Est, mentre solo nel Nord-Ovest è salito a 101,4. Rispetto al Nord-Est, il Sud, a livello di Pil pro capite, ha perso 3,7 punti e nei confronti del Nord-Ovest quasi il doppio, 6,4 punti.
Il quadro che emerge è quello di una Paese che si allontana dalle economie europee più forti perché non riesce a ridurre la struttura dualistica della sua economia. La grande opportunità dei fondi europei, in questo ventennio di unione monetaria, non è stata pienamente colta sia per l’esistenza di vaste aree di inefficienza nella nostra burocrazia sia per l’assenza di un chiaro indirizzo politico, soprattutto in tema di riforme strutturali. Sulla programmazione 2014-2020 la spesa certificata al 31 dicembre 2023 si è fermata a 34,2 miliardi, cioè al 70% di spesa contro una media europea dell’85, ponendo l’Italia al penultimo posto nella classifica dei fondi utilizzati. Tra i fattori alla base di questo insuccesso troviamo innanzitutto l’inefficienza cronica delle amministrazioni regionali del Mezzogiorno incapaci, per mancanza di personale adeguato e di competenze, di utilizzare adeguatamente i fondi europei.
Ogni argomento meridionalista deve partire dal riconoscimento che il lento sviluppo del Mezzogiorno è in gran parte un effetto di assetti di potere che hanno impedito una selezione meritocratica nella pubblica amministrazione, trasformando un componente essenziale dell’apparato statale, in una riserva di clientelismo. Solo negli ultimi tempi sono emerse esperienze positive, che tuttavia hanno ancora effetti parziali. Un altro elemento critico è la lentezza nell’esecuzione dei progetti, che in genere hanno bassa qualità e tempi di realizzazione lunghissimi: il tempo medio per la realizzazione di un’opera pubblica per un investimento di cinque milioni di euro è di ben 11 anni. Il governo ha tentato di porre rimedio a questa situazione nel settembre scorso, con il decreto su politiche di coesione e rilancio dell’economia nelle aree del Mezzogiorno che ha previsto un piano di assunzioni a tempo indeterminato, concentrando nel Mezzogiorno 572 milioni di fondi che renderanno possibile l’occupazione di 2.129 unità in Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Queste nuove truppe fresche dovrebbero gestire in modo efficiente 43,1 miliardi di euro stanziati dal Fondo sviluppo e coesione fino al 2030, destinati per l’80% al Sud e per il 20 al Centro-Nord. Il ministro Raffaele Fitto sembra deciso ad applicare alla gestione dei fondi europei l’approccio performance-based utilizzato per fondi del Pnrr e vorrebbe avere più strumenti a sua disposizione per evitare la palude delle inefficienze regionali, utilizzando scorciatoie procedurali, poteri sostitutivi affidati a se stesso e sanzioni per le amministrazioni che sono in ritardo: una volontà accentratrice che contrasta con il processo dell’autonomia differenziata. Ancora una volta il governo è diviso tra indirizzi inconciliabili che tuttavia coesistono, cementati dalla forza coagulante del potere.
Bentornato,
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