Provate a spiegare a una bambina perché la sua principessa preferita ha smesso di essere magica? “Ma come, non può più volare?”, vi chiede con gli occhi lucidi. E voi, imbarazzati, cercate le parole giuste per dirle che a volte le favole finiscono male, che non tutti i sequel sono una buona idea, che certe storie andrebbero lasciate nel loro splendore originale. Ecco, dimenticatevi questa conversazione delicata. Hbo ha appena insegnato a tutte noi che avevamo ragione a essere scettiche. Con l’annuncio della chiusura definitiva di “And Just Like That” dopo la terza stagione, si conclude uno dei capitoli più deludenti della televisione contemporanea. Non è solo la fine di una serie, è il certificato di morte di un sogno che ha accompagnato intere generazioni di donne. È l’ammissione ufficiale che quando si cerca di resuscitare un mito, spesso si finisce per profanarlo.
Perché diciamocelo chiaramente: per chi ha vissuto “Sex and the City” come un manifesto di libertà femminile, vedere Carrie Bradshaw trasformata in una caricatura di se stessa è stato come assistere al funerale della propria adolescenza. Quelle quattro donne che ci avevano insegnato che si poteva essere single e felici, ambiziose e vulnerabili, indipendenti e romantiche, sono diventate l’ombra sbiadita di ciò che rappresentavano.
Il problema non è l’invecchiamento – quello è naturale, inevitabile, e può essere anche affascinante. Il problema è che “And Just Like That” ha trasformato l’evoluzione in involuzione, la crescita in regressione. Dove una volta c’erano donne che lottavano per affermarsi in un mondo difficile, ora troviamo privilegiate che si lamentano dei problemi del “primo” mondo tra un brunch da trecento dollari e una borsa da cinquemila. La serie originale ci aveva abituate a vedere Carrie alle prese con l’affitto, Miranda che si faceva strada a gomitate nel mondo legale, Charlotte che cercava il suo posto tra tradizione e modernità, Samantha che rivendicava il diritto al piacere senza scusarsi. Erano modelli imperfetti ma autentici, donne che sbagliavano ma che ci insegnavano qualcosa sui nostri errori. In “And Just Like That”, invece, i problemi più grandi sembrano essere quale ristorante prenotare per cena o come gestire l’imbarazzo di avere troppi soldi.
Sex and the City” parlava di empowerment attraverso la lotta, la crescita, la ricerca di se stesse. “And Just Like That” parla di empowerment attraverso il conto in banca, gli abiti firmati, gli eventi esclusivi. È come se avessero preso il messaggio “puoi essere tutto ciò che vuoi” e l’avessero trasformato in “puoi essere tutto ciò che vuoi, purché tu possa permettertelo”. Invece di mostrare come si possa invecchiare con grazia mantenendo la propria autenticità, “And Just Like That” ha scelto la strada più facile: quella del lusso come sostituto della sostanza. È più semplice vestire i personaggi con abiti costosi che dar loro qualcosa di significativo da dire. È più immediato ambientare le scene in location esclusive che creare conflitti emotivi credibili. Il risultato è stato una serie che sembrava più un catalogo di lifestyle che una narrazione sulla condizione femminile. Un’accozzaglia di situazioni costruite a tavolino per cercare di rimanere al passo con i tempi, senza riuscire davvero a comprenderli o interpretarli. Perché l’inclusività vera non si ottiene inserendo personaggi diversi in situazioni stereotipate, ma creando storie autentiche che parlino davvero alle persone. E così, mentre salutiamo definitivamente Carrie e le sue amiche, non possiamo fare a meno di pensare a quello che avrebbe potuto essere. A tutte le storie non raccontate, ai messaggi non trasmessi, alle giovani donne che non avranno mai la loro “Sex and the City”. Perché certe magie, una volta spezzate, non si ricompongono più. Forse è meglio così. A volte è meglio lasciare i ricordi dove stanno. Con il tempo possiamo cambiare il finale.
Bentornato,
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