Incentivi per fermare i “cervelli”

Luca Bianchi, direttore della Svimez, è stato chiaro: «Trattenere i 40mila laureati che ogni anno se ne vanno dal Sud dovrebbe essere l’obiettivo centrale delle politiche di sviluppo perché ognuno di quelli è un pezzo di pil che se ne va». E il 2 giugno, in occasione della festa della Repubblica, il presidente Sergio Mattarella era stato ancora più incisivo.

Il capo dello Stato ha ribadito che «oggi lavorare all’estero non dovrebbe più rappresentare una scelta obbligata bensì una opportunità». Individuato l’obiettivo, dunque, si tratta di definire una strategia per far sì che i nostri giovani siano protagonisti dello sviluppo del Sud e dell’Italia intera. In questa prospettiva, gli incentivi fiscali possono risultare decisivi.

Andiamo con ordine. Lo scenario in cui ci troviamo è paradossale. Seppur lentamente e faticosamente, l’occupazione si sta riprendendo anche al Sud grazie a nuova globalizzazione caratterizzata da filiere più corte, transizioni digitale e ambientale. Eppure l’emigrazione qualificata non si riduce. Non c’è da meravigliarsi se si pensa che nel Mezzogiorno la qualità del lavoro e le retribuzioni sono troppo basse, cioè inferiori di circa il 20% al resto d’Italia, e i servizi restano insufficienti, come dimostra il fatto che solo il 30% dei bambini frequenta la scuola elementare a tempo pieno e che meno del 20% dei piccoli da zero a due anni trova posto in un asilo nido. Insomma, sembra che non si riesca a invertire quella tendenza che, negli ultimi due decenni, ha visto flussi di laureati in uscita sistematicamente più consistenti di quelli in entrata.

Per tamponare questa emorragia di intelligenze e competenze, i governi succedutisi negli anni hanno azionato la leva degli incentivi fiscali. Sul punto è interessante uno studio condotto da Jacopo Bassetto e Giuseppe Ippedico sulla legge Controesodo che nel 2010 ha esteso a tutti i docenti e ricercatori, nati dopo il 1969 e disposti a rientrare in Italia dopo due anni all’estero, i benefici introdotti da una norma del 2004. In concreto, si prevedeva un’esenzione Irpef del 70-80% dei redditi da lavoro dipendente e autonomo per un periodo variabile da tre a sette anni. La misura è riuscita ad aumentare del 30% i flussi di “cervelli” di rientro dall’estero, sebbene questo incremento non abbia colmato il gap con i flussi in uscita.

Quanto è costato questo risultato alle casse dello Stato? Praticamente nulla: lo studio di Bassetto e Ippedico dimostra come, a fronte di un certo numero di assunzioni, la perdita di gettito legata agli individui che sarebbero rientrati in Italia in ogni caso sia compensata dall’aumento di gettito legato agli individui rientrati solo perché spinti dagli incentivi fiscali. Tuttavia, a proposito del successivo decreto Crescita del 2019, Bassetto e Ippedico hanno dimostrato come l’assenza di limiti anagrafici e la durata eccessiva degli incentivi possano vanificare i benefici in termini di rientro dei “cervelli” e creare iniquità nel sistema fiscale. E il governo Meloni ha ipotizzato una legge che prevede il prolungamento delle agevolazioni fiscali per i lavoratori con almeno tre figli minorenni o a carico che trasferiscono la residenza in Italia.

La strada degli incentivi, dunque, è tracciata e va percorsa. A patto, però, che quelle misure siano ben disegnate e accompagnate da misure in grado di affrontare in modo strutturale le cause dell’emigrazione e della cosiddetta re-emigrazione, cioè di quel fenomeno che spinge molti laureati a cercare nuovamente fortuna all’estero dopo essere rientrati in Italia.

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