Nel secondo mandato del presidente Donald Trump, gli Stati Uniti stanno attraversando una fase delicata. Pur mantenendo una retorica di forza e sovranità nazionale, l’attuale amministrazione americana si trova ora di fronte a segnali inequivocabili di difficoltà: diplomatiche, economiche, istituzionali e culturali. Tutta una serie di eventi recenti, più o meno visibili o più o meno sottili, suggerisce che il modello trumpiano stia entrando in una fase di tensione interna, con significative ricadute anche sul piano internazionale.
Il 12 maggio scorso, Ginevra è stata teatro di un incontro ad alto livello tra Stati Uniti e Cina, culminato in una serie di accordi temporanei tesi a contenere l’escalation commerciale e tecnologica tra le due potenze. Accolti con moderato ottimismo dai mercati, questi accordi sono però apparsi fin da subito fragili. Le divergenze su settori strategici, quali l’intelligenza artificiale, i microchip e la sicurezza digitale, restano profonde, e nelle settimane successive il clima è nuovamente peggiorato, complici le rinnovate tensioni su Taiwan e accuse reciproche di spionaggio. Il rischio, oggi, è che questi negoziati finiscano per trasformarsi in una tregua solo di facciata, utile più alla comunicazione interna che a un’effettiva stabilizzazione del contesto globale.
Un altro segnale rivelatore è arrivato con le dimissioni, dopo appena 134 giorni, di Elon Musk dalla guida del Doge, il Dipartimento di Efficienza Governativa. L’imprenditore, figura di spicco dell’innovazione americana, aveva accettato l’incarico con l’intento dichiarato di portare nel settore pubblico la logica della Silicon Valley. La sua uscita, spiegata ufficialmente come “fine mandato” ma verosimilmente legata a divergenze con lo stesso Trump, testimonia una crescente distanza tra due visioni del potere: quella istituzionale e centralizzante del Presidente e quella iperliberista, tecnologica e talvolta anticonformista rappresentata da Musk.
Un episodio che, al di là della cronaca, solleva interrogativi sulla capacità dell’amministrazione di dialogare con i protagonisti dell’economia futura. Sul piano economico, le nuove misure protezionistiche volute dall’amministrazione Trump, in particolare l’introduzione di tariffe su importazioni da Paesi europei e asiatici, hanno riaperto il dibattito interno. La Corte del Commercio Internazionale ha giudicato alcune di queste misure non conformi al quadro normativo vigente, ordinandone la sospensione. La Casa Bianca ha già fatto sapere di voler impugnare la decisione, innescando un braccio di ferro istituzionale che solleva interrogativi sul rispetto dei limiti costituzionali dell’esecutivo. Intanto, numerose aziende e associazioni di categoria segnalano contraccolpi sull’export e sulle filiere produttive, con il timore di ripercussioni occupazionali nei prossimi mesi. Forse il segnale più preoccupante arriva dal fronte culturale.
A maggio 2025, l’amministrazione Trump ha revocato la certificazione del programma per studenti internazionali dell’Università di Harvard, impedendo di fatto l’ingresso a migliaia di studenti stranieri. La misura ha colpito circa il 27% del corpo studentesco e ha suscitato un’immediata reazione legale da parte dell’ateneo, che ha ottenuto una sospensione temporanea del provvedimento. Nel frattempo, il Governo ha congelato 2,3 miliardi di dollari in finanziamenti pubblici destinati alla ricerca universitaria, accusando l’istituzione di antisemitismo e di promozione di “ideologie divisive”.
La comunità accademica, negli Stati Uniti e all’estero, ha espresso forte preoccupazione, denunciando un attacco all’autonomia delle università e alla libertà di pensiero. Alcuni progetti cruciali – tra cui lo sviluppo di un vaccino contro la tubercolosi e ricerche su allergie alimentari – sono stati sospesi per mancanza di fondi. L’impressione, sempre più condivisa, è che l’istruzione e la cultura stiano diventando strumenti di scontro politico, in un clima dove il dissenso viene letto come ostilità. C’è da chiedersi, a questo punto, cosa può e deve fare l’Italia. Appare chiaro come in questo scenario internazionale turbolento, è fondamentale che il nostro Paese mantenga una postura ferma, lucida e autonoma.
L’Italia deve rafforzare i suoi legami con le istituzioni multilaterali, difendere la libertà della ricerca e della cultura, e coltivare con attenzione i rapporti strategici con Washington senza rinunciare ai propri valori fondanti. La cautela mostrata dal Governo Meloni nel commentare le misure anti-accademiche statunitensi riflette un’esitazione politica che potrebbe rivelarsi costosa: l’Italia non può permettersi ambiguità quando sono in gioco valori fondamentali come la libertà di ricerca e l’indipendenza delle istituzioni. Serve, di conseguenza, un governo capace di leggere i mutamenti globali senza subalternità, con una visione alta dell’interesse nazionale e della collocazione europea del Paese. Non si tratta di erigere muri né di strappare alleanze, ma di riaffermare, con equilibrio, il nostro ruolo in un mondo che cambia rapidamente, e in cui la coerenza democratica rappresenta oggi una delle risorse più rare e preziose.
Bentornato,
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