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Ilaria e Sara, storie di pezzi di vita intrecciati ai nostri fallimenti

Sono tante e ci vivono affianco. Ilaria e Sara. Ilaria, Sara e le loro amiche. Sono le amiche di mia figlia con cui condividono lo spazio di una palestra, di una scuola di danza, la partitura di un diario sgualcito. Il riscontro è la messaggistica Whatapp, assolutamente sovrapponibile; le foto di gruppo delle famiglie, le nostre foto: i sorrisi tirati, i volti distesi, quelle posture spesso approssimative, stanche. E, quasi sempre, la grande bellezza: solare, fantastica, esagerata.

Il riscontro sono anche i silenzi, specie al rientro a casa; la felicità che prorompe come un baleno e che tramuta, come un cielo di marzo, nella più feroce delle disperazioni. Pezzi di vite che intrecciano le nostre, le segnano. Le segnano come l’irruzione del reale nelle nostre povere vite. Quel reale che non coincide mai con la realtà, essendo invece ciò che la scompagina, come ci ricordava Recalcati.

Il reale – che per Freud coincide con gli incubi – rappresenta sempre una cesura, un dramma che interrompe in modo traumatico la normalità della realtà. La percezione di questo dramma – sincero e autentico – credo resti ancora perimetrato nell’accampamento di genere; l’accampamento del dolore, del trauma che non travalica appunto il fortino di genere, neutralizzandone del tutto la portata autentica, forte. E’ un trauma educato, stronzo, che tende ad autolimitarsi, neutralizzando la sua portata dirompente. Non sfuggo alla domanda di fondo: e quale sarebbe mai questa portata dirompente? Credo sia quella di consentire al reale di coinvolgere appieno le nostre vite, non lascindo residui per strada. Una totale e radicale revisione. Un coinvolgimento, una messa in discussione, che inevitabilmente deve partire da un atto di profonda ed umile onestà intellettuale: accettare la sentenza dichiarativa di fallimento: il nostro. Non credo centri molto il patriarcato e non credo sia una questione di formule da armeggiare, ammiccando alle ricadute politiche o, peggio ancora, elettorali. Impatta, invece, con quello che siamo, decreta – i numeri drammatici dicono questo non altro – l’eclisse di una mondo, di un principio di autorevolezza che è cosa ben diversa da un concetto di autorità andato giustamente alla malora da tempo immemore.

In questo contesto sono degne di grande attenzione le parole del procuratore della Repubblica di Messina; colui che si occupa dell’omicidio di Sara: «È giusto porre l’attenzione ai reati da codice rosso, è giusto da parte della politica riconoscere una corsia preferenziale a questi procedimenti ma come emerge da questa vicenda la risposta penale – seppur giunta nell’immediatezza, fatto salvo la procedura di convalida al provvedimento provvisorio di fermo da parte del gip – da sola non è sufficiente». Leggevo che queste dichiarazioni sfidano l’impopolarità. Ci si chiede, allora: cos’è popolare nel trattare, anche solo con gli arnesi del giurista, un tema del genere? Diventa popolare, rassicurante – ma anche fuorviante – rincorrere il populismo penale ovverosia trasfondere ogni allarme sociale in una nuova ipotesi di reato. Risponde a questi canoni interpretativi il disegno di legge che intende introdurre il reato autonomo di femminicidio: serve a poco o nulla, se non sul fronte del consumismo penale. Scrivevo di Ilaria e Sara e delle loro amiche.

Una la incriociai una di queste sere. Sola, solita andatura a scatti, piccolina e con gli occhi neri come le occhiaie a cerchi concentrici. Di nuovo c’era un pancione che sembrava sospeso sulla magrezza di un corpo diafano. Un saluto, al volo. Senza che avessi vinto l’ignavia di dirle: “Come stai? Io ci sono, ci siamo tutti. Non sei sola”. Dovremmo ripartire da qui, anche dalla vergogna per non averle detto nulla di tutto questo.

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