Circa un terzo della nostra esistenza lo trascorriamo dormendo. Di tutto questo tempo ricordiamo a malapena qualche sogno che, col trascorrere dei giorni, si perde inevitabilmente nell’oblio. Noi umani non siamo gli unici a sognare, lo fanno sicuramente altri mammiferi e probabilmente altre specie animali. I nostri sogni, però, hanno un evidente fattore distintivo: sono narrati, a sé stessi o agli altri, a volte registrati trascrivendone i contenuti, talaltra interpretati.
Il sogno è dunque inseparabile dal linguaggio, il quale è condizionato dagli elementi di stile narrativo che caratterizzano quella lingua, in quell’epoca storica, in un determinato contesto sociale. Per quanto possa apparire un’attività psicosomatica del tutto soggettiva, il sogno è invece un’espressione dell’io sociale che dorme. Il sonno di un uomo occidentale in un comodo appartamento metropolitano è ben diverso dal riposo notturno di un abitante di una favela brasiliana. Oppure il sonno di chi vive in una caserma è cosa ben diversa rispetto a quello di chi vive in un convento. E non solo, possiamo ritenere che le condizioni del sonno degli antichi fossero alquanto diverse da quelle dei moderni. Cosicché, fattori storici e biosociali influenzano notevolmente il soggetto che sogna.
Nonostante il sogno rimandi con immediatezza, quanto meno nelle società occidentali, alla psicoanalisi o, forse meglio, alle versioni più ingenue e popolari del noto libro di Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, è ancora persistente la sua funzione oracolare di predizione dell’avvenire.
Ne sono esempi quotidiani la smorfia napoletana, probabile discendente della cabala ebraica, fonte ineguagliabile del gioco del lotto e una tenace credenza predittiva dei sogni, molto ben rappresentata dal capolavoro eduardiano, Non ti pago.
Il sogno per millenni, almeno da quando disponiamo di documenti scritti, è stato il protagonista dell’arte della premonizione: le sue profezie annunciavano l’elevazione o il disastro di re, faraoni, nobili, sudditi e popoli. Dalla Bibbia al Libro dei sogni egizio, dall’Odissea, col monito di Penelope sui sogni veridici o ingannevoli, alle Vite di Plutarco, con i sogni trattati come fatti storici, per gli Antichi le visioni oniriche sono testimonianze indiscusse della storia e la loro raccolta costituisce un consistente archivio storico. In quelle società il sogno era un faro sul divenire: il futuro, ch’era affidato al fato o a qualche divinità, si sarebbe potuto scrutare con la magia dell’interpretazione divinatoria.
I sogni tuttavia possono prendere consistenza anche nel tempo diurno: sono quelli collettivi di panico, pensiamo all’avvento dell’anno Mille e anche a quello più recente del Duemila, o di speranza, tutte le rivoluzioni o i grandi cambiamenti, prima d’essere realizzati, sono stati sognati a occhi aperti: è il fenomeno della rêverie, come lo chiamano i francesi.
Con l’avvento della modernità anche il significato attribuito all’attività onirica muta radicalmente. L’attenzione ora cade sul ricordo del passato e non più sul futuro da presagire. Protagonista principale della svolta è la psicoanalisi che ne ribalta il segno: da comprendere non è più l’ignoto del futuro ma il represso del passato. Non solo è screditata l’arte divinatoria per evidenti ragioni scientifiche maturate nel corso di tre secoli, dal Seicento all’Ottocento, ma nella modernità acquisiscono un valore centrale l’infanzia, per un verso e l’individuo come monade, per l’atro.
Per la psicoanalisi l’infanzia, il nostro passato, è l’età la cui ombra si prolunga per tutta la durata della nostra esistenza, influenzandola notevolmente. Un’esistenza in cui spesso l’individuo è solo con sé stesso, a volte in compagnia delle sue nevrosi. La grandezza di Freud è indiscutibile ma è altrettanto fuor di dubbio che i disagi dell’uomo d’oggi non si annidano, in prevalenza, nei traumi infantili ma nelle forme di vita della nostra contemporaneità: frenetiche, ansiose, rissose, acquisitive.
In fondo lo stesso Freud intravide alcune di queste condizioni, scrivendone in un’opera mirabile dal titolo eloquente, Il disagio della civiltà.
Negli ultimi decenni le neuroscienze ci informano che l’ipotesi più accreditata è che il sogno sia un sottoprodotto della fase onirica: i suoi contenuti non avrebbero alcun valore. Sconfortante, eppure al di là delle sinapsi che collegano i neuroni del cervello, per noialtri è centrale la ricerca del senso, anche del senso che hanno i sogni. E allora, finché la nostra specie continuerà a dormire, i sogni resteranno uno dei racconti per comprendere desideri, paure, ansie, che animano le nostre vite da umani.