Dopo il discorso alla Camera della premier è tornata ravvivarsi il dibattito sul carcere. Il passaggio sulla necessità di costruire nuovi penitenziari è stato oggetto di interpretazioni contrapposte: alcuni hanno letto la promessa di “più carceri, per più carcere”, altri l’auspicio di un “carcere liberale”, espressione, in realtà, intrinsecamente contraddittoria. Il carcere non è liberale per definizione. Il carcere liberale non esiste in concreto come in astratto. Liberale è solo il carcere che viene eliminato. In questo senso, la prospettiva del carcere liberale può essere resa parafrasando una celebre frase di Gustav Radbruch: non cercare un carcere migliore ma qualcosa di meglio del carcere. Sarebbe, evidentemente, un obiettivo utopistico se pensassimo nell’ottica di una definitiva abolizione dell’istituzione penitenziaria. Anche in un orizzonte di lungo periodo punire resterà necessario, una quota del bisogno di punizione dovrà essere “soddisfatta” dal diritto penale e una frazione, più o meno consistente del diritto penale, resterà legata al carcere.
L’esperienza, tuttavia, sembra dare almeno in parte ragione al pensiero espresso da Rudolph Von Jhering: la storia della pena, quella capitale e quella carceraria, in particolare, è la storia di una «continua abolizione». Liberale è la prospettiva che non si punisca se non nella misura strettamente necessaria; che il ricorso al diritto penale sia circoscritto ai casi in cui altre sanzioni sono inadeguate o insufficienti e, lo stesso, che il ricorso alla pena carceraria sia limitato alle situazioni in cui le altre sanzioni penali sono inadeguate o insufficienti. In ogni caso, la sussidiarietà della punizione penale dovrebbe essere affermata in astratto e in concreto e, quindi, pensando non solo al legislatore. È un punto chiave perché l’esperienza dimostra che quella storia di abolizione della pena non si è svolta tanto sul versante delle fattispecie e della misura delle sanzioni ma soprattutto sul terreno dell’esecuzione. Spesso si è trattato di un trade off sincrono o asincrono. Più penale in astratto meno penale in concreto, riduzione non di rado generata dalla elefantiasi stessa del sistema punitivo. In altri termini, il penale in astratto resta un penale “carcerocentrico”; il penale in concreto lo è meno. Spesso si è fatto di necessità virtù. Più che all’utilità di lungo periodo della prevenzione speciale si è guardato all’utilità, se non alla necessità, di breve periodo dello svuotamento delle carceri, purtroppo spesso solo transitorio. Le riforme degli ultimi anni sembrerebbero segnare una inversione di tendenza ma forse il periodo non è dei più indicati per avventurarsi in simili previsioni. L’oggi, del resto, interpella la coscienza del penalista richiamandolo anche alla consapevolezza che il carcere in Italia è sempre più una discarica sociale, l’espressione più ruvida di quella funzione “rimozionale” del diritto penale che costituisce una cifra perenne della penalità ma che i circuiti della giustizia “penale mediatica” catalizzano parossisticamente. Se non dobbiamo rinunciare a progettare qualcosa di meglio del carcere, non dobbiamo dimenticare l’urgenza di un carcere migliore.
Giuseppe Losappio è docente di Diritto penale presso l’università di Bari