Il salario minimo coi contratti collettivi

Nel leggere la prima analisi condotta dal Cnel sul salario minimo, seguita ieri da un’altra in vista dell’approvazione del documento finale da parte dell’Assemblea prevista per giovedì prossimo, molti commentatori si sono stracciati le vesti e hanno parlato di quel testo come di un prevedibile assist dell’organismo presieduto dall’ex ministro Renato Brunetta al governo Meloni. Quest’ultimo, si sa, è contrario all’introduzione della paga di nove euro lordi l’ora e il Cnel, nella sua prima uscita ufficiale sul tema, ha sottolineato come la copertura della contrattazione collettiva sia da ritenersi vicina al 100% e di certo superiore all’80% richiesto dalla direttiva europea sul salario minimo. Secondo il Cnel, in altre parole, i lavoratori poveri esistono; il loro stato, però, non dipende da quanto vengono pagati ogni ora, ma dagli accordi contrattuali: basti pensare che, come emerge dal rapporto annuale stilato dall’Inps, molti di questi sono assunti sulla base di un accordo di carattere part time.

A ben vedere, dunque, il Cnel ha indicato al governo Meloni l’ennesima sfida da affrontare: per garantire condizioni di lavoro dignitose, anche e soprattutto sotto il profilo retributivo, bisogna estendere la contrattazione collettiva. Non si tratta di un impegno di poco conto e l’economista Andrea Garnero l’ha ben chiarito sulle colonne de “La Stampa”, individuando gli ostacoli di questo indispensabile percorso di rafforzamento della contrattazione collettiva. Il primo è definire i soggetti realmente rappresentativi, cioè quelli in grado di sedersi al tavolo delle trattative in nome e per conto di un adeguato numero di lavoratori; il secondo, più che un ostacolo, è un pericolo e consiste nella possibile cristallizzazione degli attuali problemi della contrattazione.

Osservazioni condivisibili, quelle di Garnero, che però non devono esimere il governo Meloni dall’affrontare la sfida di cui stiamo parlando. Perché la contrattazione collettiva è effettivamente lo strumento più idoneo per garantire condizioni di lavoro più dignitose. Lo dice persino l’Unione europea, secondo la quale il salario minimo va adottato nei Paesi a bassa copertura contrattuale degli occupati; in quelli caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva, infatti, le paghe sono generalmente più alte mentre più contenute risultano le disuguaglianze salariali. Senza dimenticare che la contrattazione è l’unico strumento in grado di promuovere tutele e garanzie aggiuntive rispetto al salario minimo orario che da solo non può assicurare l’attuazione del principio del giusto salario.

Come va affrontata, dunque, la questione? Indispensabile è investire nel rinnovo dei contratti e magari migliorare le condizioni economiche dei lavoratori anche attraverso i contratti di secondo livello che nell’ultimo anno, complici le misure ad hoc già introdotte dal governo Meloni, sono aumentati del 35%. Per centrare questo obiettivo bisogna rivitalizzare le organizzazioni che rappresentano i lavoratori e i datori di lavoro, rafforzare tutte le istituzioni del settore, riconoscere a tutti il diritto alla contrattazione collettiva, definire un’agenda economico-sociale che miri a contrastare le disuguaglianze e l’esclusione, garantire la sicurezza economica, facilitare le giuste transizioni, migliorare l’equilibrio tra vita privata e professionale, favorire la nascita di imprese sostenibili e supportare la parità di genere. È una rivoluzione culturale, quella che si chiede al governo di centrodestra, prima ancora di qualsiasi legge sulla rappresentanza di sindacati e associazioni datoriali. Così la contrattazione collettiva può essere rilanciata e contribuire a risolvere il problema del lavoro povero in Italia, a cominciare dal Sud.

Raffaele Tovino – dg Anap

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