Il populista che arginava i populismi

Achille Occhetto è stato duro. E, nel ricordare l’avversario che lo sconfisse alle elezioni del 1994, non ha usato mezzi termini: «Berlusconi ha segnato il passaggio dalla Prima Repubblica al populismo».

In effetti, il segreto del successo del Berlusconi politico è consistito in questo: applicare al dibattito democratico le regole del commercio, il che vuol dire parlare alla “pancia” degli elettori semplificando quanto più possibile messaggi e proposte.

È così che si è aperta la stagione dei contratti con gli italiani firmati in diretta tv e delle promesse strombazzate ma spesso disattese o mantenute parzialmente: quella di abbassare le tasse, di creare un milione di posti di lavoro, di attuare una rivoluzione liberale che per molti aspetti è rimasta soltanto su carta. Eppure, in una seconda fase del suo percorso politico, Berlusconi è stato l’alfiere della lotta contro almeno due forme di populismo. Dietro il suo scontro perenne con la magistratura e il tentativo di riformare la giustizia in senso più liberale (e talvolta anche in linea con i propri interessi personali e imprenditoriali), si è celato il tentativo di debellare il populismo giudiziario che infesta l’Italia dal 1992. E cioè dall’epoca di Tangentopoli, quando giudici e pm si accollarono la missione di ripulire la vita pubblica e di moralizzare la politica sulla base di un (presunto) tacito mandato popolare.

È quella stagione che ha poi generato l’idea del magistrato-tribuno, unico e autentico interprete delle aspettative di giustizia del cittadino, e quella del carcere e dell’inasprimento delle pena come uniche terapie per i mali che affliggono la società. Un esempio concreto è stata la riforma Bonafede che nel 2020, abrogando di fatto l’istituto della prescrizione, ha soppresso il principio della ragionevole durata del processo e introdotto la figura dell’imputato a vita: roba da Santa Inquisizione alla quale la successiva riforma Cartabia ha soltanto in parte posto rimedio, tanto che ancora oggi si avverte la necessità di una profonda revisione dell’organizzazione della giustizia e della classe dei magistrati.

Spinto anche da motivazioni del tutto personali, quindi, Berlusconi ha rappresentato un argine al dilagante populismo penale e giudiziario che da oltre trent’anni altera gli equilibri democratici nel nostro Paese. Il leader di Forza Italia è riuscito nel suo intento? Probabilmente no, se si riflette sulle dinamiche e degenerazioni che ancora oggi caratterizzano l’amministrazione della giustizia in Italia.

Ma se Berlusconi ha sostanzialmente fallito nel tentativo di riformare la giustizia in senso più liberale, non si può dire altrettanto a proposito del suo intento di limitare gli eccessi del populismo di una certa destra. La presenza di Berlusconi ha contribuito senz’altro a modernizzare un’area politica per lungo tempo rinchiusa nelle catacombe del neo-fascismo e del post-fascismo. E se oggi la premier Giorgia Meloni dialoga senza imbarazzi con i leader mondiali e i vertici dell’Unione europea, se affronta senza estremismi i temi più spinosi della politica economica ed estera, se in Italia e nel mondo è percepita non più come una neofascista ma come una conservatrice, il merito è anche di Berlusconi e dei tanti berlusconiani della prima ora che ora infoltiscono i ranghi di Fratelli d’Italia. In questo la politica moderata e anti-populista del leader di Forza Italia, almeno nella sua seconda versione, ha centrato pienamente l’obiettivo.

Piaccia o meno, dunque, Berlusconi ha rappresentato una barriera davanti a pericolosi populismi e sovranismi, con risultati più o meno soddisfacenti. Resta da vedere che cosa succederà nell’immediato futuro. La politica liberale e moderata del Cavaliere sarà alimentata o è destinata a spegnersi con conseguenze imprevedibili? La speranza è che l’eredità più alta e nobile del berlusconismo non vada irrimediabilmente perduta.

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