Negli ultimi anni il tema delle disuguaglianze e della coesione sociale è tornato al centro del dibattito pubblico. Non è più soltanto una questione economica, ma un fenomeno complesso che investe la dimensione sociale, culturale e persino psicologica delle persone. La pandemia, seguita dalla crisi energetica e da un’inflazione persistente, ha messo in luce la fragilità dei meccanismi che tengono insieme le nostre comunità: la sicurezza economica, la fiducia nelle istituzioni, il senso di appartenenza.
I dati parlano chiaro: secondo l’Ocse, negli ultimi vent’anni la quota di reddito detenuta dal 10% più ricco è cresciuta costantemente, mentre i salari reali della maggioranza hanno perso potere d’acquisto. La ricchezza tende a concentrarsi, e con essa il potere decisionale, mentre ampie fasce della popolazione vivono una sensazione crescente di precarietà e impotenza.
La forbice tra chi ha molto e chi ha poco non riguarda soltanto il reddito. Tocca l’accesso alla casa, all’istruzione di qualità, ai servizi sanitari, alla mobilità, perfino al tempo libero. In Italia, l’aumento dei prezzi, l’impennata dei tassi d’interesse e la cronica scarsità di alloggi a canoni sostenibili stanno aprendo una frattura generazionale sempre più profonda. Chi ha acquistato una casa negli anni passati, o può contare su un patrimonio familiare, dispone oggi di una rete di sicurezza. Per i giovani e per chi entra ora nel mercato del lavoro, invece, gli ostacoli sono quasi insormontabili: affitti troppo alti, carriere frammentate, difficoltà a risparmiare. È una disuguaglianza silenziosa ma corrosiva, che rischia di incrinare il patto tra generazioni e alimentare risentimenti e disillusioni.
A questo si aggiungono differenze territoriali che continuano ad ampliarsi. Il divario Nord-Sud resta marcato, ma oggi emergono nuove linee di frattura: tra centri urbani dinamici e periferie trascurate; tra grandi metropoli e aree interne che perdono popolazione, servizi e opportunità. In molti territori cresce la sensazione di essere «tagliati fuori», esclusi dai circuiti dell’innovazione e della rappresentanza. In questo vuoto maturano sfiducia nelle istituzioni, disaffezione politica e, talvolta, la tentazione di rifugiarsi in identità locali o comunità chiuse.
I sociologi parlano sempre più spesso di «crisi del legame sociale». La comunità, intesa come rete di solidarietà e reciprocità, viene sostituita da un individualismo diffidente, dove prevale la logica della competizione e del «si salvi chi può». Le disuguaglianze non generano solo ingiustizia economica: minano la coesione, erodono la fiducia, riducono la capacità di immaginare un futuro comune. E senza fiducia nessuna società regge a lungo.
Resta allora una domanda cruciale: la disuguaglianza è un effetto inevitabile del mercato oppure il risultato di scelte politiche? Economisti come Joseph Stiglitz e Thomas Piketty sottolineano che non si tratta di un destino: è la conseguenza di regole economiche e fiscali che favoriscono la concentrazione della ricchezza. Il mantra della meritocrazia, spesso invocato per giustificare le differenze, rischia di diventare un alibi: quando i punti di partenza sono così diseguali, il merito non basta a spiegare gli esiti.
Intanto, la classe media, per decenni pilastro della democrazia, si sta assottigliando. E con essa si indebolisce anche quel patto sociale che ha garantito stabilità e coesione nel dopoguerra. Sempre più cittadini si percepiscono in bilico: non abbastanza poveri da ricevere sostegni, ma sempre più lontani da una condizione di sicurezza. Da qui nascono paure, diffidenze, rancori che alimentano populismi e astensione.
Come reagire? Come ricostruire la fiducia tra cittadini e istituzioni? Non esistono soluzioni semplici, ma alcune direzioni appaiono inevitabili: investire in istruzione, sanità, politiche abitative, partecipazione civica. Rafforzare i meccanismi di redistribuzione non significa “punire” il successo, ma rendere sostenibile la convivenza e dare a tutti una reale possibilità di miglioramento.
Zygmunt Bauman ricordava che «una società in cui troppi si sentono superflui è una società a rischio». Quelle parole oggi suonano come una diagnosi e un avvertimento. La società liquida, fluida, instabile, priva di punti di riferimento, è ormai realtà quotidiana. Quando le persone perdono appartenenza, quando si sentono invisibili, la coesione vacilla. E senza coesione nessuna comunità può durare: non è un semplice valore etico, ma una condizione di sopravvivenza, l’unico antidoto contro frammentazione e paura.
La precarietà non riguarda più soltanto il lavoro ma la stessa identità sociale: l’idea di poter essere «espulsi» in ogni momento dai circuiti della partecipazione, del riconoscimento, della dignità. Quando cresce il numero di chi si sente inutile o marginale, si incrina la base della convivenza civile. Chi non trova spazio nel tessuto sociale tende a ritirarsi o a cercare appartenenze alternative, talvolta radicali e chiuse. Si comprende allora come la coesione sociale non sia un semplice richiamo retorico, ma un requisito di stabilità collettiva: la condizione necessaria per evitare che la società si disgreghi in frammenti isolati.