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Il pensiero critico, unico antidoto all’intolleranza

In una raccolta di scritti di Umberto Eco, “Migrazioni e intolleranza”, tra i vari argomenti si tratta di un particolare tipo di intolleranza: l’intolleranza bruta, fondata esclusivamente sull’emotività, risultato di pulsioni elementari e infantili, una animalità senza pensiero. Tra le varie forme di discriminazione, l’intolleranza bruta è la più pericolosa e la più difficile da estirpare, perché, non fondandosi su alcuna ideologia né sulla forza della ragione, è impermeabile a ogni argomentazione razionale. Di fronte a questa grezza natura, ogni approccio di tipo intellettuale è destinato a misera resa.

La constatazione amara è che, sempre di più, intorno a noi, su argomenti di estrema attualità e importanza, si registrano reazioni di questo tipo. Solo per ricordarne qualcuna, l’abbiamo visto con le proteste dei no-vax, con le proteste degli studenti universitari che hanno impedito di parlare, in diversi Atenei, i giornalisti Parenzo e Molinari. Lo si è visto in questi giorni in un’area di sosta, all’altezza di Lainate, dove una famiglia francese, colpevole di portare il kippah — perché di religione ebraica — è stata insultata e malmenata al grido di “Palestina libera”. Questo clima diffuso di intolleranza bruta caratterizza, purtroppo, molte proteste nei Paesi democratici occidentali, rappresentando la cifra della crisi profonda che stanno vivendo le democrazie liberali.

Di fronte alla complessità dei problemi sociali, umanitari, economici, etici che segnano il nostro tempo, l’atteggiamento che sovente si riscontra trasversalmente in ogni strato sociale, e purtroppo anche in certa classe politica, è un atteggiamento di semplificazione rozza e inappropriata e una tendenza a una generalizzazione che non distingue ruoli e responsabilità. Sono sintomi di un clima corrosivo che si nutre di reazioni istintive e rabbiose, dove il pensiero critico viene soffocato da un bisogno compulsivo di identificare un nemico. Sempre più spesso si attribuisce a un intero popolo la responsabilità delle azioni del suo Governo, senza distinguere tra chi decide e chi subisce, tra Stato e cittadini. È un’aberrazione logica, prima ancora che morale. Una generalizzazione grottesca nella sua barbara stupidità, se non fosse inquietante ed evocatrice di autoritarismi e totalitarismi del secolo scorso, che hanno condotto alle enormi tragedie che conosciamo. Il pensiero critico si ritira, lasciando spazio a una logica binaria: amico o nemico, giusto o sbagliato.

Hannah Arendt, riflettendo sul processo a Eichmann, ammoniva sul pericolo della “banalità del male”: non serve un mostro per commettere atrocità, basta una mente che smette di pensare, che obbedisce senza giudicare. La colpa collettiva, così come l’intolleranza religiosa, sono il frutto maturo di menti che hanno abdicato al pensiero critico.

Nel mondo iperconnesso di oggi, le reazioni emotive viaggiano più veloci della comprensione. Le informazioni, spesso non mediate da verifica o conoscenza generano opinioni preconcette. L’effetto è una deriva binaria della realtà: giusto o sbagliato, vittima o carnefice, buoni o cattivi. Nessuna sfumatura, nessun contesto.

Serve oggi più che mai la capacità di distinguere tra critica e odio, tra fede e fanatismo, tra responsabilità personale e appartenenza etnica o nazionale cercando di costruirsi un convincimento autonomo e critico sui problemi del nostro tempo senza essere eterodiretti. La sfida non è solo intellettuale: è etica, civile, democratica.

In un tempo in cui si parla tanto di “identità”, forse dovremmo riscoprire una forma di identità più profonda: quella dell’essere umano capace di empatia e discernimento. Come ammoniva Voltaire nel suo Trattato sulla tolleranza, “non dobbiamo mai cessare di gridare fino a quando non si saranno spezzate le catene dell’infamia”: una frase che pesa come un principio morale, un imperativo categorico Kantiano. Se vogliamo difendere la nostra civiltà, dobbiamo imparare a pensare con rigore e lucidità consapevoli della responsabilità intellettuale e civile del nostro giudizio. Solo così potremo costruire una convivenza fondata sulla giustizia e non sul pregiudizio ed evitare che le democrazie si svuotino dall’interno. Solo così potremo trasformare la paura in dialogo, la rabbia in consapevolezza, e custodire la dignità dell’umano in un tempo che sembra dimenticarla.

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