Trump torna a suonare la tromba dei dazi, annunciando che da giugno le tariffe potrebbero salire fino al 50%. Solo una provocazione? O piuttosto una strategia precisa per forzare la mano alla Commissione europea e ottenere concessioni commerciali vantaggiose per le super-aziende statunitensi, approfittando delle divisioni interne tra i 27 Paesi membri? Già in passato Trump ha utilizzato i dazi come arma negoziale: basti ricordare le tariffe su acciaio, alluminio e prodotti agroalimentari imposte all’UeE nel 2018. Oggi, con una nuova amministrazione alle spalle e in un contesto globale profondamente mutato, lo scenario rischia di complicarsi ulteriormente. Dopo una guerra commerciale a colpi di minacce e contro-annunci con la Cina, conclusa con un apparente pareggio, ora gli occhi sono puntati su Bruxelles. I negoziati in corso sono delicati e finora inconcludenti, mentre i mercati restano in bilico e molte aziende europee temono nuove turbolenze.
Nel panorama europeo contemporaneo, la questione della disunità interna rappresenta una costante fonte di vulnerabilità strategica. Le fratture geografiche Nord-Sud e Est-Ovest si riflettono in divergenze economiche, sociali, culturali e soprattutto politiche, con conseguenti asimmetrie che rendono difficile elaborare risposte coese alle sfide globali, siano esse commerciali, climatiche o geopolitiche. Il baricentro della politica europea si è spostato progressivamente verso i Paesi dell’Europa centro-settentrionale: Germania, Francia, Paesi Bassi, Austria, e anche le istituzioni di Bruxelles, appaiono ormai orientate su parametri economico-finanziari propri di queste aree. Questo spostamento non è solo geografico, ma anche ideologico e tecnocratico: da un lato l’Europa “del rigore”, che detta le regole del gioco, dall’altro quella mediterranea, che fatica a far sentire la propria voce.
Una dinamica, questa, che ripropone in forme nuove e più sofisticate logiche storiche di dominazione basate su un’evoluzione in senso monopolistico-gestionale: l’accentramento delle risorse, delle infrastrutture strategiche (energia, digitale, difesa) e dei centri decisionali è giustificato in nome della stabilità e dell’efficienza. Ma tale razionalità economico-politica rischia di trasformarsi in una concentrazione asfittica del potere, che esclude progressivamente le aree periferiche e rafforza la percezione di un’Europa a due (o più) velocità.
Il Sud Europa, in particolare, vive un paradosso: da un lato è indispensabile per la sicurezza energetica (basti pensare ai corridoi sud-mediterranei per il gas e le materie prime), per la gestione delle rotte migratorie e per l’equilibrio mediterraneo; dall’altro, resta sistematicamente marginalizzato nelle grandi decisioni politiche ed economiche. Questo non solo mina la legittimità interna dell’UE, ma rischia di alimentare una crisi di fiducia nei confronti del progetto europeo stesso, specie in contesti nazionali già provati da croniche crisi socio-economiche. In tale quadro, la gestione accentrata è spesso presentata come un “male necessario”, una forma di “tutela per il bene comune”. Tuttavia, la storia insegna che la stabilità ottenuta con la compressione delle istanze periferiche è fragile e destinata, prima o poi, a incrinarsi. Se l’Ue vuole davvero essere un attore geopolitico autonomo e credibile, dovrà necessariamente ripensare il proprio equilibrio interno, restituendo voce e ruolo alle sue componenti più deboli, ma strategicamente cruciali.
Tali fragilità strutturali rendono il continente sempre più vulnerabile a giochi di forza esterni. In tale contesto, i popoli del Mediterraneo devono riscoprire la propria vocazione storica: crocevia di culture, portatori di un pensiero più profondo, fondato sulla misura, sull’equilibrio, sulla bellezza, ma anche su nuove alleanze. Con la Cina, ad esempio, si apre una possibilità concreta. Pechino da anni guarda con interesse strategico al Mediterraneo, investendo in infrastrutture chiave e in reti logistiche trans-europee, nell’ambito della Nuova Via della Seta. Per i Paesi del Sud Europa, può essere l’occasione per costruire canali di dialogo autonomi, che vadano oltre la semplice dipendenza economica.
L’obiettivo non è sostituire un’egemonia con un’altra, ma imparare a negoziare da una posizione più consapevole e plurale. L’area mediterranea ha molto da offrire: innovazione sostenibile, cultura, agroalimentare, energie pulite, turismo di qualità. È tempo di usarli come strumenti di politica internazionale, non solo come merce di scambio. Certo, i rischi esistono: la Cina non è un partner neutrale, e le sue logiche statali pongono qualche interrogativo, ma proprio per questo serve una postura chiara, capace di accogliere le opportunità senza rinunciare alla propria identità. Non subire, ma contrattare. Il Mediterraneo può diventare ponte tra Oriente e Occidente. Ma per farlo deve uscire dalla passività e rivendicare la propria centralità. Serve un nuovo sguardo, capace di decifrare gli inganni della società capitalistica, i meccanismi di dipendenza psicologica e politica che alimentano subalternità e rinunce. Solo così, forse, sarà possibile costruire un nuovo orizzonte. Perché la bellezza, nel Mediterraneo, non è solo estetica: è un principio politico, etico, vitale.
Bentornato,
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