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Il labirinto? Più che uscirne l’importante è percorrerlo

Nel greco moderno c’è una parola che ha un sapore antico, che porta con sé il profumo del mito e significa letteralmente “labirintico” e ci riconduce automaticamente non soltanto a uno spazio architettonico, fatto di pietre, corridoi tortuosi e meandri oscuri, ma principalmente a un’idea, a un simbolo che attraversa la storia dell’uomo come un enigma irrisolto, come una domanda aperta sulla condizione umana.

Nel nostro immaginario il labirinto ha il volto di Creta, di Minosse, di Pasifae, di un’orribile zoofilia che conduce alla nascita del Minotauro, un mostro con il corpo bipede e la testa di toro che si ciba dei giovani ateniesi. La storia vuole che un eroe, Teseo, lo uccida e aiutato dalla genialità di una donna innamorata, Arianna, riesca a trovare la via del ritorno per mezzo di un filo. Cosa c’è dietro questa narrazione, se non la paura di non riuscire a individuare la scelta giusta, quella corretta, spaventati come siamo dalla possibilità di sbagliare? Ma se per un attimo solo pensassimo che non esistono scelte giuste o sbagliate e che optando per la scelta altra avremmo una visione differente? E se solo smarrendoci nel labirinto arrivassimo al centro del nostro essere? Anche Dante attraversa un labirinto di peccati e redenzioni per giungere al cospetto di Dio. E Borges non costruisce labirinti di parole che diventano rappresentazioni della mente, del destino, delle possibilità? Quelle stesse possibilità che possono farci pensare che il Minotauro non è il nemico, ma la parte di noi che abbiamo rinchiuso, la nostra vera natura che abbiamo soffocato dietro regole, ruoli e aspettative.

Siamo alla ricerca di una vita dove per ogni domanda esiste una risposta, per ogni problema una soluzione, dove non esistono curve ma solo rette, e in questo algoritmo di perfezione l’errore sia una colpa. Una volta entrati nel labirinto, l’importante non è uscirne, ma percorrerlo, come qualsiasi viaggio, proprio come quello di Ulisse raccontato dal poeta greco Kostantin Kavafis, dove Itaca non è la meta ma solo il pretesto per andare. Allora attraversiamolo tutto il nostro labirinto, senza l’ansia di dover necessariamente tenere il filo che ci possa portare fuori, ma quello che ci aiuta a restare, senza la paura di perderci. Impariamo ad abitarlo il labirinto, a sentirlo nostro e da prigione diventerà elemento di trasformazione

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